Sapienza

A cura di

Bianca Pestelli

Illustrazione di

Redazione RatPark


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Assistiamo da qualche tempo, diciamo da un anno, a un revival significativo di Goliarda Sapienza, autrice (prima, attrice) vissuta tra il 1924 e il 1996, pubblicata con scarso successo in vita, con ancor meno fortuna in patria dopo la sua morte, e riscoperta postuma solo a partire dal 1998, quando Larte della gioia venne proposto per la prima volta da Stampa Alternativa, in un’edizione che passò quasi inosservata. 

Fu solo nel 2008, con la riedizione per Einaudi, che l’opera – la scrittrice – venne finalmente accolta all’interno del dibattito letterario italiano, con ritardo e fatica. Mentre Oltralpe, nella sollecita Francia, aveva già riscosso un notevole successo. 

Le motivazioni che accompagnano il brusco ingresso di Sapienza nel panorama del mainstream sono da ricercarsi, forse, in un altro significativo revival: quello dei femminismi, complice – come sempre – una società – la Storia? – anchilosata nel patriarcato. Una reazione all’assenza di azione e di educazione da parte delle istituzioni è, per chi cerca o si auspica cambiamenti, la rincorsa a voci autorevoli, dimenticate, silenziate, intelligenti. Una di queste voci è proprio quella della siciliana Sapienza. Di per sé un interessamento che non significa “male”, ma che non sta portando neanche a “bene”. 

Mi spiego meglio: sia la serie Sky Larte della gioia, di Valeria Golino e Nicolangelo Gerolmini, sia il film di ultimo spolvero Fuori, di Mario Martone con Golino protagonista, sembrano non riuscire davvero a parlare di questa scrittrice, della sua potenza e, soprattutto, della forza delle sue idee. Affreschi che, per certi versi, sembrano sfiorare la caricatura, con pennellate che richiamano un’estetica hollywoodiana, cenni abbastanza superficiali, che lasciano la materia al suo stato d’aggregazione: primitivo. 

Leggevo, qualche giorno fa, su Doppiozero, un intervento lucido di Nicoletta Vallorani a proposito del Meridiano mondadoriano dedicato a Philip K. Dick, pubblicato questo aprile. Dick, celeberrimo autore, culto della fantascienza, è stato per decenni relegato ai margini del canone letterario ufficiale, spesso ignorato o rifiutato in quanto scrittore di un “sub-genere”. 

Vallorani riflette su due aspetti fondamentali, che trovo suonare con il “ritorno” sullo spartito di Sapienza: da un lato, l’assimilazione di un autore da parte dell’editoria mainstream, dopo anni di sospetto o addirittura ostilità da parte dei circoli della letteratura “alta”; dall’altro, la decisione editoriale di affidare la cura della pubblicazione non a uno studioso, ma a un appassionato lettore. Cosa accade, quindi, quando un nome, un genere o una figura “scomoda” diventano improvvisamente “spendibili”? E cosa succede quando, anche in presenza di figure colte, sensibili, addirittura con relazioni personali o artistiche con l’autrice – come nel caso di Golino con Sapienza –, il risultato sembra comunque cedere, più che alla pressione del mercato in sé, alla difficoltà oggettiva di restituire una figura così complessa e irriducibile in un formato narrativo che vuole, in ogni caso, incontrare un pubblico ampio? 

Nel caso di Fuori e de’ Larte della gioia, sebbene con nomi come Ippolita Di Majo, Valeria Golino e lo stesso Mario Martone coinvolti, succede che il risultato, pur formalmente elegante, lascia addosso una certa vacuità. 

La fagocitazione di soggetti delicati, critici in un certo senso – e, spesso, ancora da scoprire – e la loro distribuzione frettolosa al grande pubblico, in nome di un’appetibilità da marketing e mercato della tendenza, può risultare rischioso, soprattutto quando l’opera di partenza si regge su tensioni radicali. Non è detto che l’intento fosse riduttivo: forse era la posta stessa a essere troppo alta. E, in questi casi, pare non sia stata vinta.

Non basta prendere un grande nome – per gli addetti ai lavori, si badi bene –, una figura di una sua mitologia tutta speciale e buttarla su una pellicola per renderle giustizia. 

Dov’è la profondità nel film di Martone? C’è o siamo a due passi dalla riva, troppo preoccupati dalla possibile presenza di meduse? 

Fuor di metafora, la possibilità di fare un film all’altezza – autentico, profondo, coraggioso – c’era. E non c’era solo perché Martone è un buon regista. C’era perché la scrittrice, donna, personalità Goliarda Sapienza apparecchiava la tavola a banchetto. Ma era una possibilità estrema, che chiedeva un atto creativo fuori da ogni prudenza.

Chi non ha mai letto Sapienza, sarà davvero incuriosito, tentato di farlo, una volta uscito dalla sala? Il brandello di verità che il film consegna arriva quasi insperato, proprio alla fine, con uno stralcio di intervista reale, della voce viva di Sapienza. 

Per il resto dei 115 minuti, solo silenzio. E qualche domanda che resta.

Quando nei titoli di coda, nel film diretto da Martone, si afferma poi – e, alla maggior parte del pubblico in sala, probabilmente, suggerisce per la prima volta – che Sapienza è una delle più grandi scrittrici del Novecento, le si fa un torto. 

Non perché l’abbia raggiunta, servendomi di mitologica negromanzia, nel regno dell’Oltretomba e ne abbia potuto parlare con lei. Ma perché, di questa sua assunzione nel canone, della fatica, dell’oblio, della negligenza e negazione patite prima di entrare in quello stesso canone, dodici anni dopo la propria morte, né L’arte della gioia né – più colpevolmente – Fuori sono stati in grado di parlare. 

Non si tratta di “pappagallare” romanzi e biografie, pensieri e vita, di posare a favore di macchina una storia già scritta da qualcun altro: si tratta, ogni tanto, di dire la verità. 

Ma sì, certo, il cinema è finzione ed è la finzione a renderlo attraente. D’accordo! Ma nella finzione c’è sempre un patto di realtà, di qualche tipo, a qualche livello, di qualche profondità emotiva o intellettuale, che ti fa pensare: la storia è credibile. 

Nelle scene alla Thelma & Louise di Martone, nelle docce a tre, la credibilità lascia lo spazio alla finzione totale. Ciò che campeggia, allora, è la rinuncia alla credibilità a favore di mercato.

Non si tratta solo del film Fuori, infatti. Poco tempo prima era stata la serie Sky Larte della gioia a riportare Goliarda Sapienza nell’arena del visibile. 

Ma di che visibilità si tratta? La serializzazione del romanzo postumo più conosciuto dell’autrice, intriso com’è di eros, politica, rivolta, non ha davvero retto il peso della sua materia. La trasposizione, nella sua smania di eccesso e patinatura, sembra più preoccupata di stuzzicare lo spettatore che di restituire l’urgenza con cui Sapienza scriveva. Si perde l’irregolarità radicale di Modesta, ridotta a icona femminile – magari anche queer, magari anche ribelle – ma senza nerbo, senza contraddizione, senza reale ferocia. 

Se Fuori la silenzia con le sue maniere hollywoodiane, Larte della gioia la imbalsama in una narrazione liscia, colma di segni evidenti, ma priva di stratificazione. L’artificio della lettura (in scena soliloqui) di parti del romanzo, aiuta, quantomeno, la serie tv a restituire stralci, per forza di cose, sinceri. 

Forse, allora, più che un revival, quella che stiamo osservando è una messa in scena. Di Goliarda Sapienza resta il nome, lo slogan, una patina di ribellione e femminismo da vendere al miglior distributore. 

Ma chi ha letto LUniversità di Rebibbia (1983), Il filo di mezzogiorno (1969), Lettera aperta (1967), L’arte della gioia, Il vizio di parlare a sé stessa (2011), sa che non si può parlare di Sapienza senza fare i conti con l’inadeguatezza, con la dissonanza, con il dolore come verità non negoziabile. 

Il suo pensiero è il contrario della semplificazione e dell’adattamento. È un pensiero che urta, che scompagina e sconquassa. 

Invece, tanto Fuori quanto Larte della gioia, sembrano volerlo addomesticare. 

Forse, allora, non è solo una questione di mercato. Forse è Sapienza stessa a non prestarsi – o a farlo solo parzialmente – alla logica della narrazione seriale o cinematografica. Il rischio di semplificazione è interno al gesto stesso dell’adattamento, e richiede, in questo caso, un coraggio creativo pari almeno alla radicalità della scrittura originaria. Non bastano la buona fede o la sensibilità: servirebbe anche un altro linguaggio, rischioso tanto quanto il primo atto creativo.

Del resto, è Sapienza stessa a ricordarcelo. Nel film di Martone, viene spesso definita “ladra”: di gioielli, certo, ma soprattutto di parole e di vite. E allora, per chi vuole davvero restituirla, forse è proprio questo il gesto da compiere: rubare come lei, da lei. Per attraversarla senza oltre-passarla.

Gesti meno istrionici e più necessari: ascoltare prima di raccontare. Leggere prima di celebrare. Restituire prima di spettacolarizzare.

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