Politica e Società

Produci, lavora, consuma?

Sbattiti, battiti, fottitene

Tratto dalla rivista N.04

A cura di

Leonardo Mori

Immagini di

Davide Bondielli


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A brief inquiry

Il nome di questo prodotto intellettuale, un bene di consumo testuale sperduto nell’oceano crescente della Rete globale, è una voluta provocazione: l’autore non se ne riserva diritto alcuno, sebbene le inquiries siano tra i prodotti più di moda nelle fasce sociali più abbienti del Diciottesimo secolo, perlomeno in Occidente.

Inquiry: indagine, ricerca, saggio. Cosa c’entra il Settecento con il mainstream nel Duemila? C’entra, c’entra, ora ci arriviamo.

Prima di tutto, chiariamo una cosa: la distinzione tra mass-cult e mid-cult, come affermava un certo MacDonald negli anni ’60, un filosofo statunitense più che anarchico (e più che ricco), non può avere posto qua dentro. Il mass-cult sarebbe un prodotto intellettuale di qualità inversamente proporzionale al suo successo, il mid-cult un prodotto intellettuale adeguato. Ora, se è comunque vero che il consumismo per come lo conosciamo oggi prende il via proprio nello stesso decennio della Guerra del Vietnam e della Rivoluzione Sessuale, non è tuttavia vero che si debba per forza continuare su questa linea. Questa posizione è rafforzata, se possibile, dal fatto che virtualmente i processi globali di inter-connessione tra culture, stati, individui, siano di raggio crescente.

Pochissimi luoghi al mondo sono totalmente isolati da altri contesti e anche qualora non siano reperibili informazioni dal “mondo esterno”, comunque gli sviluppi globali incidono sulla vita di quegli spazi. Il concetto di mass-cult e mid-cult, nell’epoca di Internet, non è possibile. Harry Potter e le poesie di Dante Gabriel Rossetti sono beni di consumo diffusi su scale certamente diverse, eppure sono entrambe disponibili a chi le desideri. Siamo quindi molto, molto lontani da un mondo dove la cultura è riservata a pochissimi. Interrogarsi sulla bontà o meno di quest’ultimo tratto non è mio compito: aprirebbe un sentiero politico che, se battuto, ci porterebbe lontano.

Torniamo, di botto, alla riflessione principale: in un mondo dove definire i confini e i tratti profondi del consumismo è difficile anche e soprattutto per chi lo vive sulla propria pelle, perché il mainstream dovrebbe avere una valenza totalmente negativa?

Il concetto di mainstream, difatti, si trasforma a seconda di chi osserva: chi condanna ad oggi, ad esempio, l’evoluzione dell’industria musicale nell’ultimo quarto di secolo, definendola come una “mutazione genetica della musica” rispetto a tratti passati, è passibile di una contraddizione di fondo. Possiamo credere forse che i Beatles, il maggior gruppo musicale della storia contemporanea, la cui diffusione non conosce rallentamenti e le cui vendite non si sono mai contratte dagli anni ’60 (di certo non un decennio noioso e privo di eventi), non siano parte del mainstream? Il rock stesso è, contemporaneamente, parte del mainstream ed antitetico ad esso: attraverso la diffusione di prodotti culturali come album, tracce, canzoni, raccolte, artisti, cantanti, parolieri e musicisti di ogni caratura e grado hanno potuto trasmettere su larga scala le proprie idee.

Allo stesso tempo, hanno potuto rimpinguare le proprie tasche, dato che non di solo pane vivrà l’uomo ma neppure si pascerà di buone intenzioni. Sono dunque i caratteri della rivoluzione industriale ad essere pienamente partecipi del concetto di mainstream? Fino ad un certo punto, dato che anche un autore latino come Cicerone è, a modo suo, mainstream rispetto ad altri semi-sconosciuti autori come Lattanzio o Diogene Laerzio. Perfettamente conscio di avere appena asserito ciò, lo dico e lo ribadisco, con orrore della mia professoressa di latino del liceo: la cultura classica è mainstream; dipende solamente dal pubblico di riferimento.

Si potrebbe allora discutere del mainstream come una sorta di imperialismo culturale statunitense, quando non proprio occidentale, un tentativo di appiattimento delle diversità culturali delle popolazioni del mondo. Potrà anche essere così ma allora non si potrebbe spiegare, su basi solamente culturali, come mai un ottavo dell’umanità resista sia moralmente che concettualmente al consumismo occidentale. Sempre questo ottavo, che prega il venerdì, ha un rapporto con la religione e la spiritualità profondamente diverso dalle secolarizzate (ma fino a che punto?) società occidentali. In una parte di mondo, Gesù Cristo è mainstream. In altre parti, non lo è, è qualcun altro, è qualcos’altro.

Ritorniamo per un momento al concetto che, con molta fatica, sto tentando di vendere. Segnare un preciso atto di nascita del consumismo e del mainstream è impossibile: sarebbe come poter contare con una precisione matematica ogni singola persona deceduta durante la Seconda Guerra Mondiale, oppure come catalogare con precisione estrema ogni singolo brano musicale presente sul pianeta. Ogni 60 minuti vengono prodotte e rese a disposizione su piattaforme più o meno diffuse globalmente migliaia e migliaia di ore di tracce. L’entità dei contenuti del sito di YouTube non è stata ancora circoscritta ma sono sicuro che sia impossibile, nell’arco di una vita di una persona, poter visionare ogni singolo contenuto. Neppure con uno sforzo sovrumano di una visione ininterrotta sarebbe possibile arrivare anche solo lontanamente alla metà dei contenuti presenti su YouTube. In fin dei conti, ciò che importa è la visione dell’osservatore; ciò che importa è come questa visione si trasformi. Se hai svolto il ciclo di scuole dell’obbligo, è probabile che prima o poi tu abbia incontrato il dilemma “natura o cultura?” sul comportamento umano.

Ecco, quel dilemma lì è in realtà un falso problema, già risolto negli anni ’80 col concetto di “epigenetica”: l’interazione dell’ambiente influenza in modo interdipendente i geni. Ogni persona nasce con un determinato pacchetto genetico; questo pacchetto interagisce e si trasforma con l’ambiente; l’ambiente stesso subisce a sua volta influenze. Tutto è connesso, niente è casuale, così come non è casuale neppure che questi segni grafici siano a te comprensibili. Ecco, anche il linguaggio in questa forma potrebbe essere, sotto certi aspetti, mainstream. Avrei potuto arroccarmi utilizzando un registro linguistico innovativo ma come dice Lodo Guenzi non sono Carlo Emilio Gadda e bontà di Dio si farebbe fatica a capire cosa scrivo.

Piccola chicca: la paternale sull’epigenetica l’ho presa da una serie tv di Netflix, altro prodotto mainstream che a sua volta moltiplica prodotti mainstream, come i documentari sulle vere cause della Prima Guerra Mondiale, su come diventare ricchi o sul cambiamento climatico.

La musica indie stessa non esime dal concetto di mainstream. Ha avuto il suo momento di gloria che poi, come tante altre mode, si è afflosciato, sostituito da altro. Sono proprio i limiti stessi del concetto di mainstream, per come è “comunemente” inteso, a renderlo ineffabile e quindi non circoscrivibile.

Ammettendo che esista una corrente principale a livello culturale, implichiamo che la cultura sia quindi un composto liquido e in continua trasformazione, come una lingua. C’è però un problema di fondo: ci sono limiti di esperienza, dato che è logicamente impossibile esperire ogni declinazione della cultura umana in tutte le sue forme, qualunque significato le si dia.

Sì va bene, però perché dovrei dire che Striscia la notizia sia bella e quindi il mainstream sia bello? Questo perché l’empatia ed il sistema di riferimento che Striscia la notizia trasmettono a chi li consuma non è necessariamente mainstream. Nessuno obbliga a seguire quel canale, puoi sempre cambiarlo e trovarne altri. Il mainstream di per sé non è difatti buono o cattivo: è uno strumento, come gli aerei. Gli aerei possono trasportare feriti verso luoghi di cura oppure possono trasportare bombe. Il pilota può avere indifferentemente l’una e l’altra missione ma l’aggeggio metallico che vola in cielo a velocità variabile non ha alcun concetto di moralità.

Altro esempio principe potrebbe essere l’influenza della televisione sull’evoluzione della lingua italiana negli ultimi 70 anni (e si ritorna sempre agli anni ’60, guarda caso): con Non è mai troppo tardi milioni di italiani hanno raggiunto l’alfabetizzazione ed imparato una lingua diversa dal proprio dialetto. Nessuno si sarebbe sognato, nel palinsesto RAI dell’epoca, di seguire MacDonald e di imporre uno sceneggiato dell’Ulisse di Joyce. Molti però si sognarono (ed attuarono scientemente) la resa in sceneggiati di commedie italiane quali quelle di Goldoni, così come Gilberto Gorni e i fratelli De Filippo resero fruibili i propri prodotti intellettuali.

Di nuovo e per l’ultima volta: interrogarsi sulla moralità del mainstream può essere sterile. Il concetto è associabile al consumismo, eppure non ne è diretta emanazione. Il libro più tradotto e diffuso della storia della nostra specie, la Bibbia, ne è l’esempio finale: come fa a non essere considerato un prodotto mainstream? Lo è a tutti i livelli ed è un libro che in alcuni passi esalta, in altri condanna, la schiavitù di un essere umano su un altro essere umano. Se non è mainstream questo, non so allora cosa sia.

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