Massimo Zamboni CCCP

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Intervista a Massimo Zamboni:
Produci, consuma, crepa

Articolo estratto dalla rivista N°00

A CURA DI

Bernardo Maccari e Lorenzo Marsicola

immagini di

Matteo Frezza


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In un’epoca in cui tutto – o quasi – è stato inghiottito dalla grande macchina del consumo di massa, è ancora possibile creare un prodotto musicale originale che si faccia anche veicolo di valori politici e morali? O anzi, è ancora possibile essere musicisti e allo stesso tempo portatori di un messaggio significativo? Abbiamo avuto il piacere di affrontare questa ed altre annose questioni con Massimo Zamboni, chitarrista e mente creativa prima dei CCCP e in seguito dei CSI.

L’artista, originario di Reggio Emilia, ha  pubblicato nel 2022 il suo ultimo album: La mia Patria attuale. Scegliendo fra l’altro di sperimentare in un terreno da lui finora inesplorato: quello del cantautorato. Il bisogno di cimentarsi in questa nuova sfida, come ci ha spiegato lui stesso, nasce dal desiderio di fare musica non per il mero riscontro di pubblico, ma dalla volontà di trasmettere dei valori, un pensiero e perché no, anche una speranza.  

Lorenzo: Ascoltando il tuo ultimo album, se si volesse tralasciare l’aspetto specificamente musicale, si potrebbe dire che al suo centro stanno le parole. Nello scriverlo, come ti sei approcciato alla scelta di alcune di esse, come ad esempio “patria”, che è una parola certamente abusata? Pensi che sia ancora possibile trasmettere, attraverso la musica, un messaggio ricercato?

Massimo: Senza dubbio ad oggi la musica è una disciplina marginale; non serve più alla vita delle persone ed è confusa con l’intrattenimento. Al contrario, queste sono due categorie molto diverse. L’intrattenimento è un qualcosa che si ricollega ad un divertimento molto “cheap”, molto terra terra. Io non credo di avere a che fare con quest’ultimo, ma non per superiorità: ho avuto la fortuna di formarmi in un periodo in cui la musica aveva grandissimo valore, ed era una guida per il comportamento di milioni di persone.

Una canzone poteva essere una bandiera, in una canzone ci si poteva identificare. Cosa che ad oggi non può avvenire in nessun modo. A mio parere quello che conta è cosa vuole un dato individuo dalla propria vita, e che rapporto vuole creare con le persone e con il mondo. La musica diventa dunque una istanza prettamente esistenziale, un metodo veloce per provare ad arricchirsi. Se la musica deve rappresentare un qualcosa di più profondo, allora credo che ci sia un grande valore in questo, credo che sia un terreno molto fertile, nel quale, soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo, valga la pena giocare parole pesanti. Parole chiave che servono per definire il destino di milioni e milioni di persone. E patria è fra queste. Sia in senso negativo, che in senso positivo. 

Lorenzo: E dunque, il valore sociale, o anche politico, della musica, esiste ancora oggi? Va ancora perseguito, in un momento in cui, rispetto al passato, la musica si è più abituati a considerarla una forma di svago e di distrazione?

Massimo: Ci vuole abitudine anche in questo. Chi si è formato nell’ambiente culturale di cinquanta anni fa poteva approfittare di una situazione culturale più evoluta di quella attuale, e di un’idea di mondo più condivisa di quella che oggi offre lo schermo di un telefonino. Si ascoltavano musiche molto complesse. Vedevo palazzetti pieni per ascoltare musicisti jazz d’avanguardia. Vedevo Dario Fo e Lucio Dalla portare i loro spettacoli in fabbriche occupate, come è successo anche qui alle Reggiane (Officine Meccaniche Reggiane ndr), dove fior di intellettuali hanno portato testimonianza di solidarietà. Esisteva dunque un intreccio tra cultura, lavoro e vita. Istanze che avevano valore, e che sono state spezzate, in maniera assolutamente voluta.

Oggi si è distolti dagli altri, dal turbinare di contentini, piccoli regali, continua partecipazione agli spettacoli televisivi. Si è distolti soprattutto dall’idea curiosa, assolutamente folle, che in qualche modo il mondo ci appartenga. Che noi col mondo abbiamo qualcosa a che fare. Al contrario si sente come nostra, l’auto, il telefonino, la fidanzata o il fidanzato. Ma questo senso di appartenenza più ampio, sarebbe assolutamente da perseguire. E in questo la musica potrebbe avere un ruolo, se noi glielo riconoscessimo. 

Lorenzo: Parlando ancora del tuo ultimo album: in questo ultimo lavoro ti sei approcciato ad un mondo tendenzialmente nuovo per te, cioè quello “del cantautorato”. Considerando che il tema del nostro primo numero è lo zero, a significare una assenza sulla quale costruire, tu diresti che per scrivere il tuo ultimo album sei ripartito da “zero”, o invece ti sei portato dietro qualcosa della tua esperienza precedente? 

Massimo: In primo luogo, secondo me lo zero, come mi ha insegnato mia figlia, filosofa, è un numero bellissimo. Bellissimo perché ha un potere assorbente. Porta dentro tutto, un po’ come la notte. E in questo tutto, io mi sento a mio agio. Allo stesso modo, è chiaro che mi preme molto non dimenticare quello che ho alle spalle, come uno zaino, ancora pieno di ortodossia, compagni e cittadini, CCCP, CSI, le mie colonne sonore, i miei concerti. E in qualche modo, mi sento sorvegliato da tutto questo. Come se avessi una presenza di fianco; una presenza da cui vengono stabiliti dei limiti, pur molto larghi, entro i quali mi devo muovere. Ma in questi limiti io trovo una fortuna: il non poter fare tutto quello che voglio. E questo mio ultimo album, la mia Patria attuale, sicuramente rientra in questi limiti. 

Lorenzo: E allora, ricollegando il discorso al valore che la musica aveva nel passato, e che forse adesso non ha più e a questo bagaglio, quando nel 1982 sono nati i CCCP, si potrebbe dire che la creazione di questo gruppo musicale sia in qualche modo figlia del suo tempo? Che tu avessi la sensazione di poter fare qualcosa di importante non solo per te, ma anche per gli altri? Che a quel tempo lo zaino non lo sentissi solo tuo, ma di una moltitudine di individui?

Massimo: La cosa buffa è che ai tempi era normale, era la normalità decidere ad esempio di fermarsi ad un casello autostradale ed arrivare in India, o a Berlino.  Esisteva un contesto in cui tutti potevano fare, e dunque facevano, questa cosa. Ed è quindi stato normale fondare un gruppo come i CCCP, decidere di suonare.  Con un occhio storico si potrebbe dare il merito dell’esistenza di questa possibilità ai nostri genitori, che ci hanno consegnato un mondo, ricostruendolo dopo la guerra. Di questa ricostruzione la mia generazione ha potuto approfittare, inconsapevolmente.

Con una sorta di strafottenza nel pensare “io faccio quello che voglio, il mondo è mio”. Con i CCCP i primi concerti li facevamo per noi, eravamo circondati di filo spinato. Poi, gradualmente, il filo spinato lo abbiamo tolto, e infine con i CSI. questo avvicinamento è diventato senza frontiera, senza confini, finendo per diventare una guida. Io suono sempre per qualcuno, non suono mai per me, voglio che ci sia qualcuno ad ascoltarmi. 

Bernardo: Ma quindi, sempre considerando i CCCP, l’humus politico in cui i membri del gruppo si muovevano, e le conseguenti convinzioni dei singoli membri, potrebbero essere considerati come un motore creativo? Come le fondamenta di quello che poi siete stati?

Massimo: In un certo modo sicuramente si. Nessuno di noi aveva obiettivi politici chiari; ma ognuno di noi aveva le proprie esperienze che ha portato all’interno del gruppo, pur senza tararle in maniera precisa. Noi siamo tutti di Reggio Emilia, città che la politica l’ha sempre vissuta in maniera epidermica e capillare. Anche non volendo, ci si sentiva inseriti in un certo contesto nel quale questo aspetto del vivere umano aveva un ruolo fondamentale. È chiaro poi che noi siamo nati in maniera casuale, per questione di attimi. Ma rimane innegabile come alla fine dei conti ognuno apporti al gruppo le proprie esperienze individuali. Le nostre erano caratterizzate in un certo modo, e da questo è nato un qualcosa di similmente caratterizzato. 

Bernardo: Proprio in merito a questo: come dici, ai CCCP per nascere è bastato un attimo. E allora ti chiedo: potrebbe oggi bastare un attimo per creare un qualcosa di paragonabile ai CCCP? anche dal punto di vista dell’importanza dell’ ideologia politica nelle dinamiche di un gruppo musicale? 

Massimo: Noi siamo arrivati in un mondo che si stava sfaldando. E quindi, quando abbiamo iniziato a portare in giro bandiere rosse e spille di legno, facevamo una stranezza. E’ stato un momento irripetibile. Oggi non si ha più la percezione di quel mondo “dall’altra parte”, al di là del muro. Per rappresentare qualcosa di simile lo si dovrebbe portare in scena, il mondo, ribaltandolo. Sarebbe complesso anche perché noi ci siamo arrivati non per un processo razionale; piuttosto per una necessità, quasi animale. 

Lorenzo: E invece, quando dalle ceneri dei CCCP, sono stati fondati i C.S.I., avete anche questa volta sentito una necessità “animale” di dare una nuova forma alle sensazioni scaturite da quell’avvenimento, decisivo, che è stato la caduta del Muro? 

Massimo: Anche in questo caso, la decisione non è stata ragionata. Se avessimo agito in modo razionale, non ci saremmo sciolti. La caduta del muro ci ha influenzato in modo decisivo, ma il processo non è stato chirurgico. E’ stata una decisione lunga, soffertissima. Una sorta di follia benedetta, tenendo comunque conto della libertà che da tale follia è scaturita. Ma rimane, ed infatti è stato, un mettersi in gioco, senza rete. 

Bernardo: Allora rimanendo sul tema del muro: in un mondo “con il muro”, nel quale il muro agisce come limite, anche fisico, fra due mondi diversi e quasi opposti, sembra quasi che si fosse più liberi. Più liberi nonostante l’incombere di un qualcosa di così limitante, anche fisicamente, rispetto ad oggi, quando teoricamente ogni singolo punto del mondo dovrebbe essere facilmente connesso con ogni altro. Che riflessioni pensi possano essere fatte su questo tema? 

Massimo: Del muro sono famose ed evidenti tutte le brutture, di cui tanto si parla e si è parlato. Allo stesso modo era un ostacolo ad una serie di elementi, oggi incarnazione di un certo modello di vita che si può considerare senza ostacoli: illimitato e sconfinato. Un modello che ci porterà ad una inevitabile estinzione, della quale nessuno si rammaricherà. Non voglio invocare muri, ma sicuramente si deve tornare ad essere considerati cittadini, parte di questo mondo, in un senso diverso da quello attuale. 

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