Guerra

CATEGORIA Politica e società

La guerra, quella “vera”

Articolo estratto dalla rivista N°00

A CURA DI

Anna Aziz

immagini di

Fuad Aziz


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“La guerra è l’impiego illimitato della forza bruta” sostiene Carl Clausewitz – generale, scrittore e teorico militare prussiano – autore del celebre trattato di strategia militare, Della guerra, che intende smascherare la natura camaleontica di uno dei fenomeni politici e sociali che da sempre ha determinato gran parte dei mutamenti a livello interno e internazionale: “un atto di violenza il cui obiettivo è costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà”. Per comprendere la guerra, dunque, emerge fin da subito la necessità di dover adattare la vista e l’analisi ad uno scenario che, impotente, si divide: noi e loro, alleati e avversari, la semplice e quotidiana esistenza di interessi destinati a scontrarsi. La dura collisione di essi ha luogo su un terreno violento e strategico, in cui la pace scompare e lascia il posto alla guerra e a tutte le tecniche necessarie alla determinazione di una realtà sull’altra. 

Il nemico è un soggetto primordiale nella politica: uno specchio in cui riflettersi senza riconoscersi, quella contrapposizione che ha legittimato migliaia di scontri violenti tra ideologie, religioni, egemonie che con lo scorrere del tempo hanno manovrato individui e popoli, chiamandoli alla guerra. Strumento, dunque, della politica, arma essa stessa di una strategia atta a distruggere chi non è amico, sorta di “intelligenza” politica, capace di districarsi tra le probabilità e il rischio. E anche se la guerra distrugge e lacera profondamente qualsiasi suolo che tocca, allo stesso tempo compatta, costringe le persone, tristemente unisce giocando sulla fragilità, sulla sfiducia, su una fredda e improvvisa paura.

Essa è, infatti, anche parte fondamentale del processo di formazione e costruzione degli Stati che sono adesso l’unità politica principale del sistema internazionale. Senza la guerra, quei confini così netti e invalicabili, tanto rivendicati soprattutto oggigiorno, non esisterebbero, se non nella testa di qualche individuo. “La guerra fece lo Stato e lo Stato fece la guerra” così in poche e semplici parole Charles Tilly – sociologo, politologo e storico statunitense – riassume il moto del sistema internazionale, come un cane che si morde la coda, un circolo che sembra destinato a non interrompersi. Questo perché lo Stato moderno ha dimostrato di essere l’entità politica che muove guerra in modo più raffinato ed efficiente grazie al monopolio della forza, ovvero al controllo sulla totalità delle risorse della violenza. 

Tuttavia, il sistema internazionale non è un monolite, ma piuttosto un mosaico contraddittorio di opposti: Stato, non-Stato, riconosciuto, non riconosciuto, democratico, autoritario, un insieme eterogeneo di interessi che si contraddistinguono. Così anche la guerra non può essere stretta in un’unica forma, ma assume diverse sembianze: alle volte irrompente, altre silenziosa, distante; fratricida e interna, altrove occupante e aggressiva per territori estranei. 

Lo studio della guerra è assai ampio e presenta molti dibattiti al suo interno. Numerosi studiosi della materia si sono confrontati, cercando di analizzarne le diversità e di classificarle all’interno di una mappa finalizzata alla sua prevenzione. 

Uno dei principali scontri accademici è focalizzato sulla distinzione tra vecchie e nuove guerre. Gli studiosi della materia si dividono tra coloro che sostengono che ci sia stato un cambiamento nella natura della guerra e coloro che, invece, non lo ritengono reale. Da una parte autori come Kaldor, Beck, Van Creveld e Holsti – tra i più noti sostenitori della tesi sulle nuove guerre – affermano che i conflitti violenti avvenuti dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 presentino forti elementi di novità rispetto a quelli antecedenti.

I cambiamenti analizzati riguardano più componenti: gli attori coinvolti, l’impatto della violenza sui civili, gli ambienti interessati, le risorse utilizzate o ambite e, infine, i sistemi di finanziamento. Dall’altra parte ci sono altrettanti studiosi, tra cui Kalyvas – politologo greco – e Berdal – politologo norvegese – che confutano la tesi delle nuove guerre, sostenendo che la trasformazione della politica internazionale – data dalla sparizione delle superpotenze e del grande scontro ideologico che ha animato il ventesimo secolo –, non necessariamente ha generato una conseguente trasformazione della guerra.

Di fronte alle sue cause e soprattutto ai suoi effetti, la guerra sembra aver conservato sempre la stessa natura mentre ha, piuttosto, modificato il proprio carattere in funzione della tecnologia di cui disponiamo attualmente. I ruoli, le dinamiche, il fine ultimo, nonostante sappiano celarsi dietro forme nuove, sono sempre gli stessi che noi essere umani continuiamo a riproporre, come incapaci di trovarvi un’alternativa. 

Un’altra distinzione interna all’analisi della guerra fa riferimento al concetto di bellum iustum, la guerra giusta. Nell’epoca arcaica la giustizia bellica era ricercata più nelle modalità che nella sostanza: i conflitti dovevano essere indetti, prima annunciati e poi dichiarati secondo le regole. Tuttavia, la guerra giusta in senso moderno non risale né ad Aristotele né a Cicerone, bensì al pensiero cristiano da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino. Per i teologi e i filosofi cristiani la guerra poteva essere considerata giusta se rispettava tre condizioni: doveva essere dichiarata da una legittima autorità, doveva essere intrapresa per una giusta causa ed essere condotta nei termini legittimi. 

É così che è sorta l’occasione per alcuni sovrani di poter giustificare la guerra agli occhi delle persone, le stesse che avrebbero poi dovuto effettivamente combatterla, le stesse sulle quali sarebbe ricaduta. Nei primi anni del Ventunesimo secolo è apparso “giusto” invadere e distruggere Stati e popoli per liberarli dalle loro stesse abitudini, dalla loro stessa storia: occupanti che, occupando, regalano il progresso, la democrazia, la modernità. Quel “giusto” è stato usato — e lo è tuttora — per abbindolare l’opposizione alla guerra stessa, per tacerla e costringerla all’interno di un’obbligazione morale. Ma cosa c’è di moralmente giusto nel rivendicare la libertà con la guerra, quale fine comune possono avere questi due concetti?

Finché sono gli studiosi della materia ad approfondire il significato della guerra, a sezionarla, classificandola in diverse categorie, lo scopo rientra nello studio dei fenomeni ed è finalizzato a incrementare il bacino di conoscenza che disponiamo di essi. Nel caso in cui, tuttavia, la parola passi ai protagonisti della comunicazione e ai politici – o politicanti che siano –  non sarà mai certo che il fine risulti altrettanto trasparente. È necessario, dunque, saper distinguere le analisi compiute da esperti competenti in materia, dalla divulgazione operata da chi come primo obiettivo ha la massimizzazione del capitale elettorale, necessaria all’ottenimento del potere in un contesto democratico. 

Con lo scoppio della guerra in Ucraina lo scorso 20 febbraio, ad esempio, la propaganda politica — in particolare quella italiana —  ha posto la distinzione della guerra su un altro piano, quello della verità: Matteo Salvini, leader della Lega, ha tenuto a rimarcare con convinzione il concetto di “guerra vera” in più occasioni. 

Il 26 febbraio, in un intervento al Senato, Salvini ha affermato che: “l’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa dalla guerra vera. Ai profughi veri. Spesso si parla di profughi finti che scappano da guerre finte, questi sono profughi veri in fuga da una guerra vera”. Il 23 luglio ha specificato, ai microfoni di Rtl 102.5, che “stiamo accogliendo centocinquantamila bimbi e donne dall’Ucraina, questi sono profughi veri in fuga da una guerra vera, ben diversi da quelli che sbarcano a migliaia sulle coste calabresi, pugliesi e siciliane con il telefonino e le scarpette da tennis”. Infine, il 4 agosto ha twittato che “nel solo mese di luglio di quest’anno sono sbarcati più clandestini che in tutto il 2019, quando c’era Lega al ministero dell’Interno. Il Paese che ho in testa accoglie chi scappa dalla guerra vera, per gli altri non c’è posto”. 

Guerra

Per gli altri non c’è posto. Ma in una Repubblica Parlamentare come l’Italia il compito di decretare chi è “doveroso” accogliere e chi no, non può di fatto essere nelle mani di un solo uomo, portavoce di una delle ali politiche del paese. In teoria, anche solo pensare di operare un diverso trattamento nella garanzia dei diritti umani fondamentali nei confronti di coloro che scappano da situazioni violente e conflittuali, ha ben poco, se non niente, di democratico. 

La guerra vera si contrappone così alle numerose altre guerre in corso che, automaticamente, diventano false. In realtà, la prima vittima di ogni conflitto, in ciascun caso, è proprio la verità: lo scoppio di una guerra dà inizio, infatti, anche a un conflitto politico e mediatico che investe la grande arena dell’opinione pubblica e la condiziona attraverso specifici rapporti di forza. 

Non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa, le vittime ucraine sono apparse più vicine, più simili rispetto a coloro che provenivano dalla Siria, dallo Yemen, dall’Iraq, dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Etiopia o dal Myanmar. Si tratta di un atteggiamento comprensibile poiché fortemente condizionato dal fattore prossimità, per cui ciò che accade nelle vicinanze è automaticamente più realizzabile, rischioso, veritiero, pericolosamente prossimo. Possiamo, però, scegliere noi quale significato dare alla vicinanza: relegarlo a un criterio geografico se facciamo predominare la paura o il timore, ampliarlo, se intendiamo, invece, comprendere l’ampiezza di particolari fenomeni che interessano il mondo nella sua interezza.  

Paradossalmente, la distinzione tra “guerra vera” e “guerra falsa” è stata fatta in nome del concetto di solidarietà che, per sua natura, nasce universale e non dovrebbe assumere forme differenti per differenti destinatari. Infatti, sembra piuttosto che la “verità” della guerra in Ucraina sia stata decretata dagli Stati per riempire il grande discrimine creato tra la scelta di fornire aiuti e supporto immediati alla popolazione ucraina e il rigetto riservato invece per le vittime degli altri conflitti passati e presenti. La guerra vera diventa, dunque, un lasciapassare per alcuni e non per altri, una giustificazione disponibile solo per chi è più simile, un sogno premonitore di ciò che “veramente” può succedere anche a noi. 

È così che la verità, lentamente si perde, impugnata da coloro che la corrompono, imprigionandola ad ancella di chi alza più la voce. Insieme a essa viene meno anche la memoria di ciò che è stato e di conseguenza la prontezza e la razionalità necessarie ad affrontare ciò che sarà. Quel nemico così netto prima, adesso potrebbe essere chiunque, non solo colui da cui scappi, ma anche colui da cui giungi cercando rifugio.

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