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Non è più il calcio dei nostri padri

Quale ruolo sociale per il pallone?

Articolo estratto dalla rivista N°01

A cura di

Bernardo Maccari

Immagini di

Giacomo Zecchi


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A cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, in Brasile, una squadra di calcio, il Corinthians, si è completamente autogestita. Fra il 1979 e il 1984, durante un’esperienza assolutamente rivoluzionaria in ambito calcistico, passata alla storia come “Democrazia Corinthiana”, tutte le decisioni inerenti al club furono prese con meccanismi di votazione tipici, appunto, di una democrazia. 

Lo sport ha due facce: quella, limitata alla singola gara, o alla singola partita, nella quale contano la prestazione, tecnica e fisica, della squadra o del singolo giocatore. E quella, più ampia e generica, che tracima dal concetto specifico di “sportivo”, andando a toccare ambiti che a quest’ultimo non sono direttamente collegati. Innumerevoli sono gli esempi di eventi sportivamente rilevanti che hanno in qualche modo definito il loro tempo; fin da quando nell’antica Grecia si organizzavano le Olimpiadi, la manifestazione che più di tutte ci ricorda le origini mitologiche del coinvolgimento emozionale che singoli individui, o popoli interi, provano in riferimento a un dato evento sportivo. Uno dei primi esempi di come lo sport possa avere valore politico, sociale, storico. Fra tutti, il calcio è lo sport più popolare.

Mio nonno, citando Arrigo Sacchi, è solito definirlo come “la cosa più importante fra le cose meno importanti”, snaturando, con una semplice frase, il paradosso del gioco che solamente tale non può essere, a monte del peso storico che certe sue concretizzazioni hanno avuto su questioni enormemente rilevanti. Molte persone sono, legittimamente, disinteressate al risultato di una certa partita o alle prestazioni di un certo giocatore. Ma, chi vive una partita da tifoso sceglie di soffrire una sofferenza evitabile; sceglie di sentire un oceano di sensazioni inutili.

Anche per questo, da qualcuno, il tifo è caratterizzato come una fede. E se così tante persone danno così tanta rilevanza a qualcosa, non si può pretendere che rimanga confinata nei limiti inutili di un campo da gioco. Per ciò credo sia necessario diffidare di chi, magari anche in buona fede, cerca di minimizzare il ruolo dello sport, e delle emozioni che questo scatena in chi è appassionato.

Riprendiamo l’esempio iniziale: la Democrazia Corinthiana in particolare ha avuto, prima di tutto, rilevanza sportiva. La squadra, durante l’autogestione, ha vinto due campionati Paulisti consecutivi. Ha avuto poi, e questo è il punto cardine, incredibile valore politico. Se non fosse, di per sé, abbastanza particolare la concezione di una squadra di calcio autogestita, come è stato il Corinthians in quegli anni, si consideri che mentre accadeva ciò, in Brasile il potere era in mano a una giunta militare. Quando insomma il Corinthians vinse il campionato nel 1982, in Brasile non si votava liberamente da 20 anni. E di questo i giocatori erano consapevoli. In particolare ne era consapevole Socrates, il calciatore che più di tutti ha rappresentato quel momento, sia in campo che fuori.

Non è un caso che il movimento della “democrazia” abbia avuto origine da una figura complessa come la sua, allo stesso tempo calciatore e medico, figlio di un uomo che aveva imparato a leggere da autodidatta e che dopo aver letto la Repubblica di Platone aveva deciso di dare a suo figlio lo stesso nome del filosofo greco. Famoso per il suo stile di gioco indolente, era comunque riuscito ad affermarsi come uno dei migliori centrocampisti brasiliani del suo tempo, ma soprattutto si era affermato come figura carismatica per l’intero movimento democratico che dal Corinthians si è allargato all’intera nazione. 

Ora, il rapporto fra calcio – ma si potrebbe parlare di sport – e essere umano, inteso come soggetto parte di una società, da un punto di vista individuale non è mutato col tempo: chiunque è libero di sentirsi coinvolto o di essere disinteressato all’ambito sportivo, come è libero di scegliere le modalità del suo coinvolgimento. Vige, in questo senso, assoluta sovranità del singolo. Al contrario, ad un livello macroscopico il cambiamento è stato evidente. Per rendere conto di questo cambiamento, si possono fare molti esempi, ma una tendenza particolarmente evidente è quella che ha portato all’iper mercificazione del calcio. Mercificazione culminata con i mondiali in Qatar, che si stanno svolgendo mentre scrivo, e la cui unica giustificazione, checchè ne dicano le parti coinvolte, è economica. 

Il problema fondamentale di questa mercificazione è la monodimensionalità che ne consegue. In particolare, se del calcio si fa merce, da questa ci si aspetta, anche giustamente, un ritorno economico. Il calcio una merce lo è sempre stata entro certi limiti. Ma la tendenza degli ultimi anni è stata quella di porre in primissimo piano l’aspetto economico di tutto il sistema calcio, che è oggettivamente una macchina da soldi, cercando di limitare o addirittura eliminare aspetti economicamente neutri o dannosi.

Questo ha conseguenze relativamente negative, come ad esempio il tentativo di rendere gli stadi sempre più simili ad esclusivi salotti borghesi, e conseguenze assolutamente negative. Primo fra tutti l’utilizzo della merce-calcio per il cosiddetto “sportwashing”, definito da Amnesty International come un “soft power” usato “da stati e governi che sfruttano lo sport per rendere moderna la propria immagine e far distogliere lo sguardo dalla pessima situazione dei diritti umani nel proprio paese”. Esempio lampante di questa pratica sono, neanche a dirlo, i mondiali in Qatar, durante la preparazione per i quali, ricordiamo, il The Guardian stima siano morti 6500 operai, mentre moltissimi altri lavoravano senza vedersi riconosciuto praticamente alcun diritto. 

Giova ripeterlo: l’aspetto economico sarà sempre presente, e spesso preponderante, in particolare nell’ambito dello sport professionistico. E questo non è sbagliato, anche perchè non esistono solo i contratti multimilionari di giocatori, allenatori e dirigenti, ma anche tutto un sommerso di persone che lavorando in ambito sportivo in generale e calcistico in particolare (almeno in Italia) si guadagnano da vivere senza essere ricche e/o famose. Ma ad alti livelli si assiste al progressivo ingrigimento di un fenomeno sportivo e sociale enormemente complesso, che è sempre più necessario guardare con gli occhi di un analista di borsa piuttosto che con quelli di un appassionato. Di progressivo allontanamento tra chi tifa e chi viene tifato. 

Ingrigimento anche perché ragionare in termini esclusivamente economici impedisce che esistano stimoli non economici, cui però, in particolare in un ambito complesso e ramificato come quello calcistico, è necessario riconoscere rilevanza. Viene da chiedersi se sarà ancora possibile assistere ad episodi nei quali, con evidenza e con volontà, si vorrà smuovere qualcosa a un livello più ampio di quello prettamente sportivo, come accadde nel caso di Socrates e dei suoi compagni. I giocatori del Corinthians scesero in campo con la scritta “vota!” sulle maglie, e si schierarono apertamente contro la dittatura. Si relazionarono direttamente ai sindacati di calciatori per migliorare le condizioni della categoria, e, in generale, cercarono di farsi esempio del modo in cui un processo democratico può impattare la vita delle persone. Si può paragonare un movimento del genere ai messaggi sponsorizzati contro il razzismo che vengono proiettati prima delle partite?

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