Letteratura

Curare e farsi curare

Una riflessione su “La Cura” di Hermann Hesse

A cura di

Claudio Cozzi Fucile

Immagini di

Blogletras


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Di recente ho riletto La Cura di Hermann Hesse e ci e mi son ritrovato dentro con tutte le scarpe e vestito in giacca e cravatta mentre attraversavo le strade di XXXX alla ricerca di un po’ di pace, acqua calda e tempi sereni, alla ricerca della cura.

Questa storia è la mia personalissima visione di come, analogie e similitudini, a cento anni di distanza, possano in qualche modo caratterizzare storia completamente casuali e diverse: la mia esperienza personale e quella di Hermann Hesse. Qui ho provato a raccontare non raccontando la mia Cura, vista questa come processo psicologico, la mia terapia, attraverso le Cura e le parole di Hesse.

Con “La Cura” Hermann Hesse decide di privare del significato conosciuto il concetto di dolore, anteponendo l’anima, la psiche, al corpo. Così facendo Hesse stravolge il concetto di cura insito nell’idea della malattia e riassegna una dimensione del tutto nuova al percorso per la guarigione.

Nelle poche pagine di La Cura, Hesse, capovolge la prospettiva del problema e della sua soluzione. Il corpo così, altro non è che la manifestazione dell’identità, dell’io, dell’Es in me; tutto ciò che è fuori di me, che è manifestazione di me, è prima ancora in me. Un concetto moderno, un’inversione di punti di vista. Il ribaltamento del binomio oggetto-soggetto attuato però nel 1925, dopo solo pochi tre anni dal Siddhartha.

La mia cura

Non dormo da settimane, non sento caldo, freddo, fame, non ho paura, non sono triste, non sono felice. Per risparmiare tempo e parole posso semplicemente dire che non sento niente. Sono indifferente ai secondi che scorrono attraverso me in me. Paradossale, per uno che si è sempre (pre)occupato di parlare dell’attualità degli scritti di Gramsci, che troneggiano con un inflazionato “Odio gli indifferenti”, scoprirsi indifferente.

Non credo in una cura perché non vedo una malattia, ma tant’è che tentar non nuoce e quindi ho girato una manciata di dottori dove, puntualmente, il medesimo spettacolo si apre su un teatro leggermente diverso: illustrazione, pausa, silenzio, e fatidica domanda: “ha provato ad andare in terapia?”

La nostra conversazione fu interrotta da una breve pausa, mentre il dottore tornava a lavarsi le mani. […] “Non crede che i suoi mali possano avere anche un’origine psichica?” Ci eravamo dunque arrivati; ciò che mi aspettavo e prevedevo era avvenuto. Le risultanze positive non giustificavano del tutto la quantità di sofferenza da me denunciata, c’era un sopravanzo di sensibilità un po’ sospetto, la mia reazione soggettiva ai dolori artritici non corrispondeva alla misura normale prevista, si era scoperto in me il nevrotico. Orsù, dunque, in battaglia!

La risposta

La mia risposta è quasi sempre la stessa, no, non voglio, non ha il minimo senso, e se avessi dovuto sentirmi dire le solite cose avrei risparmiato tempo e pazienza. Ma questa volta ho deciso di sbaragliare l’audience, voglio controvertere il tutto, cambiare punto di vista e ribaltare il tavolo. Ho deciso: non voglio più ritrovarmi a dubitare della fiducia riposta nel mio interlocutore incamiciato, solo dopo la sua risposta e solo perché la sua risposta mi conduce a un sentiero morto.

Io voglio imboccare quel sentiero morto, percorrerlo tutto, arrivare in fondo e, nella piena fiducia delle mie azioni, e sfiduciare colui che prova ad indicarmelo. Se tutto è corpo allora niente lo è, se tutto è manifestazione del corpo, allora niente è più corpo. E quindi, sorpresa, sorpresa, sì, tutto è psiche, e tutto e anima o mente o spirito, lei dottore non ha senso di esistere perché il problema è sempre a monte, mai a valle.

Anch’io con molta cautela e quasi tra parentesi dichiarai che non credevo a dolori e a condizioni che fossero ‹‹anche›› di origine psichica, che nella mia biologia e mitologia personale la psiche non era gi una specie di fattore concomitante accanto al corpo, bensì la potenza primaria, e che perciò consideravo ogni situazione vitale, ogni sensazione di piacere e di dolore, e anche ogni malattia, ogni infortunio e la stessa morte, come fatti psicogeni.

Reticenze iniziali a parte, tutt* le abbiamo e quindi niente di nuovo, ciò che emerge è la peculiarità del mio percorso. L’importanza di stare al centro del mio mondo presuppone che vi sia una moltitudine di figuranti che circumnavigano la mia identità. Una schiera accerchiatrice che, ora circonda, ora sovrasta, la mia persona; un contraltare sul reale.

Non ho mai dato adito a chi mi diceva che un albero che cade nella foresta, se nessuno lo sente, non fa rumore. Però ripensandoci, ora, questa frase ha tutto un altro senso latente. Che la realtà è tale solo se è la stessa realtà a farsi reale. Che è il confronto con il mondo al di fuori di me che descrive e circoscrive me. Il riscontro con la realtà – in maniera a volte violenta, a volte atroce, talvolta dolce – intorno a vicina e sopra e sotto di me, trascinandomi nel lucido confronto mi porta alla valutazione di me.

“[…] la voce della ragione, ed esso, col suo tono freddo e sgradevole, mi fece sommessamente notare, non senza rammarico, che la sorgente della mia consolazione era un mero errore, un ragionamento sbagliato, che io, cioè, pieno di gratitudine, confrontava me stesso […] a tutti coloro che apparivano paralizzati, penosamente claudicanti o deformi, ma che trascuravo di considerare l’interminabile gamma dei sintomi che estendeva al di là della mia persona, che, vale a dire,  non mi accorgevo di tutti coloro ch’erano più giovani, dritti, vegeti e sani di me”

Il non Io, L’altro

L’altro, il non io, assume un duplice connotato: è il destinatario ultimo delle mie parole, delle emozioni raccontate da Hesse, è il fratello da raggiungere e ragguagliare sui beni e benefici del mondo, è la cura e il curato. Ma l’altro è anche il mastino dei miei dolori, il confronto di Hesse, la bilancia e il giustiziere vestito da giuria e giudice, il raffronto con se stessi, obbligato dallo scandire di un orologio maledetto ora e ora benedetto, quell’appuntamento con gli altri che poi è un appuntamento con se stessi.

“[…] che io, con le mie osservazioni e i miei raffronti perspicaci tra i diversi gradi di malattie, facessi non già dell’obiettiva ricerca, bensì dell’ottimistica autosuggestione, di ciò mi resi conto (e, come sempre succede, per gradi) solo dopo diversi giorni.”

E la Cura?

Ma alla fine cos’è la cura? Si può mai riparare un evento traumatico? Quale – e quanta – terapia ci restituirà un amato o un nostro caro? A quante sedute corrispondono le delusioni della vita? le carriere stroncate, lo stress sociale, le amarezze d’insieme possono davvero essere riparate del tutto? Quante ore servono per dissipare le disuguaglianze economiche, le turbe psichiche, i malanni e il tempo sprecato? Un guarire a metà. Ecco cos’è la cura. Un compromesso, tra noi e il dolore. Tra gli inciampi della malattia e le passerelle della cura.

“Chi di noi infermi sopporterebbe, oltre i bagni e i massaggi, oltre i fastidi e la noia, anche il digiuno e la mortificazione? No, preferiamo soltanto guarire a metà, ma vivere, in cambio, in modo un po’ più piacevole e divertente, noi non siamo giovinetti che pretendono l’assoluto da se stessi e dagli altri, ma persone anziane, profondamente implicate nei condizionamenti dell’esistenza, e perciò abituate a lasciare un po’ correre.”

E come Hesse, scrutatore dell’anima, ritrova dentro sé le ragioni del proprio dolore, delle turbe psichiche che lo tengono sveglio, dei reumatismi che lo addolorano, ecco dove anche io devo cercare. Hesse dopo la pausa, la cura, il riposo, rinvigorito, si scopre però deluso dall’incapacità di poter raccontare al meglio, di spiegare, di illustrare dettagliatamente quella sfumatura impercettibile, quel velo nascosto che ora fa aprire gli occhi davanti alla bellezza, ora ci inorridisce davanti agli abissi.

Quell’impercettibile cambio di nota, quell’invisibile nascosto che spiega e dipana. In questa missione suicida, in questo atto di coraggioso eroismo, nel perseguire la volontà di, non solo catturare, ma trasmettere, raccontare e condividere, quell’emozione, quel presagio di vita, Hesse ritrova “la molla che fa camminare il proprio orologio”. Perché alla fine la vita è anche e solo questo: perseguire il proprio cammino, seguire il proprio sentiero, curandosi e facendosi curare.

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