Cassandra

Politica e Società

Il potere nelle mani degli uomini, Cassandra e la profezia che si autoavvera

No vuol dire no… ma siamo nella condizione di dirlo?

A cura di

Bianca Pestelli

Immagini di

Wikimedia commons


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«“No means no”, recita lo slogan femminista. Ma per dire di no si deve innanzitutto essere messe nella condizione di poterlo fare, e perché ciò avvenga la società deve iniziare a occuparsi di questi racconti, creando un sistema nel quale le donne che denunciano una molestia o una violenza vengano credute e sostenute».

Così nel suo “pamphlet” femminista edito per Einaudi a maggio 2023, la scrittrice Carolina Capria si schiera Dalla parte di Cassandra. Che parte è? Quella silenziata e maledetta. Letteralmente se si pensa al mito: fu Apollo a volerla indovina, condannandola poi a rimanere inascoltata, senza audience o senza successo di ascolti, come si direbbe oggi. Perché poco di successo – nessuno – né aveva avuto il suo tentativo di sedurla.

Un mito dunque. Un mito che essendo tale è più difficile da scalfire, perché “protetto” dalla riverenza che ogni mitologia porta con sé. Se dico “mito”, se scrivo “mito”, se racconto un “mito” subito è evocato il sentore di una lontananza: di tempi, usi, modi. O, tutt’al più, il suo sinonimo positivo, nell’accezione di “fenomeno” o, ancora, per i nostalgici, l’omonima canzone degli 883. Ma se più che a un mito, parlando di Cassandra, si pensasse a una storia? E se invece di riferirci a una storia, individuale, si pensasse invece a la storia, collettiva? Non è che dietro al mito, sotto al mito e dentro al mito c’è la storia ben documentata, più che mai reale, della bilancia sociale che mette sui suoi piatti potere e uomini, da una parte, silenzio e donne, dall’altra? Mi sbilancio (pure io, assieme ai dati) e dico di sì.

Da una ricerca condotta dalla survey L.E.I. (Lavoro, Equità e Inclusione), avvalendosi di quanto raccolto dalla Fondazione Libellula nel marzo 2022, è emerso che il 71% delle donne intervistate, tutte lavoratrici in aziende, si trova in contesti dove i ruoli di leadership e di maggiore responsabilità sono ricoperti da uomini. La percentuale sfiora l’80% quando si tratta di promozioni: sono i colleghi uomini ad avanzare più velocemente, anche se più giovani e con meno esperienza rispetto alle colleghe donne.

L’aspetto più interessante della ricerca (e agghiacciante visti i risultati) è però quello che emerge dalla combinazione tra luogo di lavoro e molestie: circa sei donne su dieci sono state vittime di allusioni e osservazioni estetiche; più della metà è stata oggetto di complimenti espliciti indesiderati e di battute, commenti e provocazioni volgari; due su dieci hanno subito contatti fisici indesiderati. Tutto questo sul luogo di lavoro. Tutto questo nelle stanze del potere.

Le reazioni delle donne quali sono state? Il 58% non ha agito efficacemente e/o sempre, per ragioni diverse: quasi quattro donne su dieci lo hanno fatto per evitare conflitti e l’etichetta (lo stigma?) di “permalosa”; una su dieci non ha saputo invece cosa fare. Una minima percentuale, l’8%, ci ha “riso su”.

Ecco una parte della storia. La trama che ne esce è fin troppo nota: esce un disegno che lega gli uomini al potere e le donne al silenzio (o alla menzogna, “se mai le povere puttane ardissero parlare”, cfr Cassandra).

Tanta parte della storia collettiva che ho richiamato ha spesso bisogno dell’utilizzo di nomi di fantasia, effettivamente utili quando si tratta di raccontare storie. Una prassi che si direbbe più familiare ai romanzieri che ai giornalisti. Ma questa parte di storia collettiva, che è parte della cronaca, ha necessità di aiutarsi con quei nomi fantasiosi. Non solo per rispetto e prudenza, ma anche perché quella parte di cronaca e le sue protagoniste offese e umiliate vorrebbero più volentieri l’evasione dalla realtà che la sua fedele effige. Anzi. Diciamocelo, di questa realtà altro non vorrebbero che la sua sovversione.

Ma la bilancia statistica rivelata dalla Survey L.E.I. è reale, quotidiana, tutto fuorché favolosa. E allora, che siano i pesi a dover essere ridistribuiti? Magari potrebbe essere utile cambiare bilancia perché i pesi, per quanto spostati, non toglierebbero il trucco proprio dei piatti?

“Datevi da fare, voi donne”, capita spesso di sentire questa frase. Ma è possibile che sia invece arrivato il momento di “dare-da-fare”, di “dare-da-pensare” e a che forza di tutto questo “darsi”, invece, richiesto, ringhiato, strappato alle donne, l’uomo abbia finito per prendersele tutte e fagocitarle?

Penso a una certa università… la migliore al mondo per gli studi classici! Ironia del destino, contrappasso dantesco, mitologicamente funziona. Ma solo nel mito. Criptica (cassandrina?). Ricorro ora a quei nomi di fantasia per dar conto di storie vere, alcune proprio inscritte nella storia della migliore università al mondo (terzo anno consecutivo!) per gli studi classici.

 Riporto alcune testimonianze di mie coetanee studentesse, le quali si vedono comparire richieste di amicizia su Facebook da attempati professori, per lo più assenteisti (quanta ironia nella sorte). Ovunque presenti nel mondo virtuale, zelanti nello schiacciare il “pollicione” alla foto profilo di un’allora sedicenne Rebecca (ecco il nome di fantasia, il primo, la realtà è così cruda) col suo prosperoso seno.

E quanto svogliati nel sentirsi ripetere le risposte alle domande che meccanicamente pongono in sede d’esame. Lo sguardo lì è spento, incollato allo schermo del cellulare dove le dita si rincorrono frenetiche. È ben probabile che l’attempato professore stia cercando Rebecca su un social anziché ascoltare il suo esame, se poco dopo, terminato quello stesso esame, lampeggia una notifica sul suo telefono: “Giulio Cesare ti ha inviato una richiesta di amicizia”. Attempato conquistatore assenteista social-zelante… il suo Rubicone lo valica anche quando indiscreto il suo sguardo, anziché sul telefono, si posa sulle cosce di Virginia, quella povera puttana… Si è messa una gonna. Cosa si aspettava?

A Rebecca e Virginia non importa denunciare quello che è accaduto. No, un attimo: Rebecca e Virginia non credono che denunciarlo porti giustizia (sociale in prima istanza) o non ritengono utile farlo.

Rebecca, qualche giorno dopo, farà visita a sua nonna, è in ospedale, in terapia intensiva: non è in ottima salute. A malapena intende e vuole. Sicuramente non parla. Il primario scherza comunque con la nonna (si scherza con chi non capisce? O si abusa, forse?): “sua nipote è bella signora, tornerei più volentieri a casa con lei che a casa mia”. Rebecca piange più tardi, ha subito una violenza a cui non ha saputo (o non ha potuto?) opporre resistenza.

Tutta questa non è mitologia. Eppure. Terzo anno consecutivo in cima alla classifica mondiale di studi classici. E Cassandra, povera puttana, muta.

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