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Fuga per la vittoria: perché i grandi calciatori scelgono l’Arabia Saudita

Il governo è proprietario dei principali club e sta investendo cifre faraoniche per entrare nel calcio dei grandi.
Restano dubbi sui valori dello sport e i diritti umani

A cura di

Lorenzo Marsicola

Immagini di

Nicolò Guelfi


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Al termine dei mondiali di calcio dello scorso dicembre, disputati in Qatar, una notizia ha sconvolto il mondo del calcio: Cristiano Ronaldo, uno degli sportivi più famosi e vincenti di sempre, sceglie di trasferirsi nel campionato arabo di calcio, la Saudi Pro-League. Il giocatore portoghese si è trasferito negli ultimi giorni di dicembre all’Al-Nassr, squadra della capitale Riyad, accettando una mirabolante offerta di circa 200 milioni di euro all’anno.

Il casus belli ronaldo

Qualche tempo fa, alla domanda sui margini di crescita futuri della Saudi Professional League, Cristiano Ronaldo rispondeva: «Credo che nel giro di qualche anno, passo dopo passo, il campionato dell’Arabia Saudita sarà tra i primi cinque al mondo». Queste parole hanno ovviamente fatto il giro del mondo e suscitato reazioni contrastanti, un po’ per chi le ha pronunciate e un po’ per il loro significato vero e proprio. Anche perché in passato, altri campionati extra-europei hanno provato a fare ciò che sta accadendo adesso in Arabia Saudita: basti pensare al Qatar o alla Chinese Super League. Negli ultimi mesi, però, dall’Arabia Saudita sono arrivate notizie importanti, e da un lato abbastanza sorprendenti, in merito al nuovo corso del campionato.

Il principe ereditario dell’Arabia Saudita, nonché primo ministro, Mohammed bin Salmán ha infatti annunciato l’avvio di un gigantesco piano nazionale di investimenti per lo sviluppo dello sport, con un particolare focus sul calcio, disciplina molto amata nel Paese e con l’obiettivo, neanche troppo nascosto, di ospitare i Mondiali del 2030. Il piano di investimenti rientra all’interno di un grande progetto di sviluppo economico e culturale avviato nel 2016, denominato Vision 2030.

Il calcio come via di uscita dal petrolio

Riassumendo molto drasticamente, l’obiettivo di questo progetto è di ridurre la dipendenza del Paese dal commercio di petrolio, diversificando l’economia e investendo nel settore dei servizi pubblici e della cultura. Fra i vari ambiti interessati, c’è quello sportivo, e in particolare quello calcistico.

Ma andiamo con ordine: il campionato arabo è attivo fin dagli anni ‘70 ed è composto di 16 squadre. Già dagli anni ‘90 è stato meta di calciatori famosi, ma ormai al termine della propria carriera. Per regolamento, le compagini possono avere un massimo di otto giocatori stranieri. Inoltre, tutte le squadre fino a poco tempo fa appartenevano di fatto al governo stesso. E proprio su questo punto è avvenuto di recente il cambiamento più epocale.

In arabia saudita le principali squadre appartengono allo stato

Il PIF (Public Investment Fund), il principale fondo sovrano dell’Arabia Saudita, che trae la propria ricchezza dal commercio petrolifero, ha acquisito il 75% delle quote delle quattro principali squadre del Paese: Al Hilal, Al Nassr, Al Ittihad e il neopromosso Al Ahli. Lo stesso fondo possiede anche l’80% delle quote dello storico club inglese del Newcastle. Proprio nell’ambito dell’acquisto di quest’ultimo, due anni fa si creò una grossa controversia fra la Premier League, la massima serie calcistica inglese, e il fondo stesso. Il PIF, per quanto tecnicamente indipendente dalla famiglia regnante, è in rapporti stretti, per usare un eufemismo, con il principe ereditario Mohammed bin Salmán.

La controversia si risolse con una dichiarazione della lega inglese, che si diceva soddisfatta di alcune prove legali che il fondo avrebbe fornito per dimostrare l’estraneità della seconda carica dello stato saudita (ormai de facto la prima) negli affari del fondo. Ma la privatizzazione delle quattro squadre più seguite ha generato polemiche anche in patria: i dirigenti delle altre squadre saudite hanno sollevato alcuni dubbi sulla centralizzazione della proprietà e sul fatto che alcuni club saranno finanziati in maniera diversa rispetto ad altri.

Tra tutti, sono stati quelli dell’Al-Shabab, la terza squadra più grande di Riyad dopo Al-Nassr e Al-Hilal, a manifestare il loro disappunto: «Il divario sta diventando troppo grande – ha dichiarato Khalid Al-Baltan, presidente del club – Il monte ingaggi dell’Al-Shabab è quattro volte inferiore rispetto al solo stipendio di Cristiano Ronaldo. Come faccio a colmare da solo un gap così ampio? Se la mia macchina è una piccola berlina giapponese, come ci si può aspettare che gareggi contro Lamborghini e Ferrari?».

Emenalo coordinerà l’acquisto dei giocatori stranieri

Il governo saudita ha però rassicurato gli altri club, annunciando la possibilità di ulteriori privatizzazioni in futuro. L’ingerenza del governo sulla lega non si limita però all’ambito economico. L’obiettivo della nuova Saudi Pro-League è sì quello di portare in Arabia i grandi giocatori internazionali, ma anche di renderlo allo stesso tempo competitivo ed equilibrato.

L’ultimo tassello di questo progetto, reso noto negli scorsi giorni, va esattamente in questa direzione: la lega ha assunto Michael Emenalo, ex vice di Carlo Ancelotti presso il club londinese del Chelsea, come direttore del neonato “Player Acquisition Center of Excellence”. Il suo compito sarà di coordinare gli acquisti dei giocatori stranieri, ma non solo.

Altro compito fondamentale sarà quello di mappare le rose delle squadre, così da avere una visione d’insieme, intervenendo sui punti deboli di ciascuna di esse. Emenalo ha già avuto un discreto successo con il Chelsea in ambito di scouting e sviluppo dei giocatori.

ceferin: “L’operazione è un errore. il calcio non è solo questo”

Queste notizie ovviamente non sono state gradite dalla Uefa, l’unione delle federazioni calcistiche europee. Aleksander Ĉeferin, presidente dal 2016, a giugno di quest’anno, si è espresso in questi termini in merito ai recenti trasferimenti di diversi giocatori europei in Arabia: “Penso sia principalmente un errore per il calcio dell’Arabia Saudita, che in questo senso sta commettendo lo stesso errore della Cina; dovrebbero investire nei loro settori giovanili, portando allenatori che sviluppino propri giocatori. Il loro sistema non porta a nessuno sviluppo visto che i calciatori arrivano tutti a fine carriera, in cerca di qualche soldo in più. Ma il calcio non è solo questo, molti giocatori vogliono vincere le migliori competizioni e queste si trovano tutte in Europa”. Un pensiero che diversi esponenti del vecchio calcio europeo hanno condiviso.

Ma anche su questo punto la Saudi Pro League è decisa a intervenire. Dal 2021 è attivo un programma denominato “Tactics for future” e che prevede una serie di investimenti sui settori giovanili locali e sulle nazionali; secondo i dati riportati dalla Gazzetta dello Sport, i settori giovanili hanno avuto un incremento del 162% negli ultimi due anni, con apertura di nuovi centri e la formazione di nuovi allenatori “moderni”. E i risultati già si vedono: basti pensare che nel recente Mondiale, la nazionale araba ha battuto i futuri campioni dell’Argentina nella partita d’esordio del torneo. E, sempre lo scorso anno, la nazionale under 23 ha vinto la coppa asiatica.

Che ne è dei valori sportivi e dei diritti umani?

Detto tutto ciò, restano naturalmente delle ombre sul progetto saudita: oltre alla già citata arbitrarietà con cui il progetto viene portato avanti, e che coinvolge direttamente il governo stesso, manca qualunque forma di regolamentazione negli investimenti, ben rappresentata dalle cifre faraoniche con cui tanti giocatori, Cristiano Ronaldo compreso, sono stati convinti a trasferirsi nella SPL. Senza citare i problemi connessi ai diritti civili o alle condizioni lavorative. Una situazione tragicamente simile a quello già presentatasi con i mondiali in Qatar, che la Fifa non ha però avuto problemi ad assegnare nel lontano 2010. Ma la storia spesso si ripete.

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