Politica e Società

Desertificazione lavorativa, annichilimento giovanile

Riflessioni quotidiane dall’Italia del XXI secolo

A cura di

Elsa Rizzo

Immagini di

Pixabay


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Sono le tre del pomeriggio quando Roberta, una vita insieme, mi chiede di aiutarla a stendere i vestiti che dovranno asciugarsi prima dell’indomani, quando dovrà prendere l’aereo che la riporterà nella città dove sta finendo di studiare. Il caldo micidiale di questo aprile poco ricorda i miei anni dell’adolescenza. Enna è una città famosa oltremodo per il clima impervio e umido a dispetto degli altri capoluoghi siciliani. Non riesco a fare a meno di pensare che questo tepore è in realtà un guinzaglio che ci fa credere di poterci guidare una volta lontani, ma che una volta mossi ci lascia con sempre meno aria, quella sufficiente per ritrovarci ansiosi e tramortiti. Macigni che si accumulano.

Questo tepore è una trappola bastarda, un espediente letterario che romanticizza la mia visione, rendendomi ancor più malinconica e pensierosa. Sarà forse per questo che la presenza di Roberta mi riporta a pochi anni fa, quando gli adulti si stavano impegnando per chiudere il buco dell’ozono, ce lo ricordiamo? promettendoci che da quel momento in poi sarebbe stato tutto in discesa e che sì, sì, poi saremmo potuti tranquillamente tornare ad accaparrarci qualsiasi risorsa, ad arricchirci oltre misura, ad ingurgitare senza sosta. Che, soprattutto, questa cuccagna sarebbe stata alla portata di tutti. Chiudevamo il buco e, in men che non si dica, avremmo vissuto in un mondo in continua espansione, un processo che avrebbe visto protagonista ogni intraprendente giovane nato in questa generazione. La nostra, la Z, la più bistrattata. Poi, nell’arco di un decennio ci sono state la crisi del 2011, la pandemia del Covid-19, l’esplosione della Guerra in Ucraina, l’iperinflazione, il massacro perpetrato da Israele nella Striscia di Gaza, tutti fattori che ci rendono abitanti di un’era in perenne crisi. Tuttavia, non vorrei soffermarmi su queste cause strutturali.

Ho venticinque anni e mi sentirei di dire che, nel frattempo, qualcosa di questo processo è andato storto. Ci rifletto ogni qual volta invio, un automa ormai collaudato, dovreste vedermi, l’ennesimo curriculm con annessa lettera di motivazione declinata per ogni application, chiedendomi quanto o, meglio, cosa, questo paese e le aziende stiano facendo per contrastare la disoccupazione giovanile e aumentare i nostri miseri salari. Questi ultimi, quando si vedono. Si, perché, tutti e tutte noi ci siamo ritrovati a dover svolgere periodi di stage non retribuiti, o a percepire salari a stento sufficienti a coprire il costo dell’affitto, a muoverci dentro un ambiente di lavoro altamente tossico. Questo, quando il lavoro lo troviamo.

Quando non lo troviamo, spoiler: la maggior parte dei casi, almeno all’inizio, finiamo in un limbo infernale che assomiglia sempre di più a un labirinto dalle tinte tetre che ci guida passando per un sito di collocamento all’altro dove le uniche parole che riescono a orientarci, perché ripetute allo sfinimento, sono, pena la non ricevibilità della candidatura, una previa esperienza nel settore di uno, due, tre anni. Che meraviglia. Eccoci qua, carne fresca di laureati schifati da un mondo del lavoro che dopo averci affibbiato il nomignolo di bamboccioni, ci preclude l’accesso immediato inscenando quello che credo non possa essere definito altrimenti se non un ricatto malefico: come possiamo fare le prime esperienze se già per esse ce ne viene chiesta una zero? In questa piovra tentacolare che è il mondo del lavoro attuale, siamo di fronte al trionfo di un sistema schizofrenico che fatica a riconoscere le sue storture, non riuscendo a far altro che non sia finanziare bonus, dimenticando di implementare politiche del lavoro strutturali. O, quantomeno, di evitare che l’accesso al mondo del lavoro ci faccia frustrare a tal punto.

Ho studiato scienze politiche e, sì, sì, so che starete pensando ma questa che si lamenta a fare?, sapevo fin da subito che il post-laurea, il mio inserimento nel mondo del lavoro, non avrebbero seguito il percorso lineare invece promesso da altre facoltà. Questo mi ha spaventato durante i miei anni di studio? Certo. E come me ha spaventato tutti i miei amici, perché questo erano per me le persone che inizialmente erano semplici colleghi. Lo so perché tra noi studiose a scipol, il nomignolo affettuoso con il quale indicavamo la nostra facoltà, questa crisi era inevitabile.

Tutte, prima o poi, avremmo chiamato in lacrime qualcuno, sbarrato gli occhi in mensa, stritolato con un abbraccio qualcuno sussurrando cosa stessimo facendo, dove stavamo andando, se mai saremmo arrivate. Ci spalleggiavamo e nel frattempo ardevo di rabbia al solo pensiero che noi, esseri umani con una passione gigantesca per quello che studiavamo, dagli occhi pieni di sogni, un pensiero critico altamente ricettivo, ci sentissimo già, in partenza, così tanto, così irrimediabilmente, senza speranza. Pasolini diceva che siamo stanchi di diventare giovani seri. A me verrebbe da dire che siamo stanchi di sguazzare in questo mare agonizzante.

Forse sembrerò brutale e cinica, però quando penso che questo problema non riguarda solo me, ma un’intera generazione, ugualmente automa di fronte al computer, mi sento sollevata. Mi sento sollevata non perché questo ci deresponsabilizzi, ma perché quando tante e tanti di noi vengono tormentate dagli stessi dubbi, trovare una soluzione non è più una semplice questione di salvezza individuale, ma un’urgenza collettiva. E io, nella collettività, ci credo a dismisura, perché mai come adesso possiamo urlare con forza che il personale è politico.

Il problema della ricerca del lavoro non riguarda me, non riguarda i miei amici, non riguarda chi proviene da delle regioni dove l’occupazione arranca storicamente. Riguarda un’intera società che da qualche anno a questa parte finge di non vedere l’elefante nella stanza: la stagnazione dei salari, quelli italiani sono congelati da più di trent’anni, una denatalità che ha assunto un carattere ormai sistemico (chissà perché?), un sistema pensionistico semplicemente insostenibile.

Crediamo che questo sia un problema nazional(popolare), ma oltre alla sua triste e preoccupante replicabilità a livello transnazionale, rischiamo di non vedere più in là delle già drammatiche conseguenze economiche: la radicalizzazione di una generazione che diventa sempre più delusa, sempre più spezzata, sempre meno fiduciosa.

Qualcuna di voi potrebbe sostenere che “con alcune lauree non si campa” e a me, ogni volta, si stringe il cuore a pensare a quanti attivisti, persone geniali e curiose conosco che hanno studiato queste fantomatiche “scienze delle merendine”, dovrebbero, secondo questo pensiero altamente pericoloso, finire nel tritacarne di una vita precaria e frustrata. Credere che esista una gerarchia all’interno dei saperi produce queste infide storture che trovano eco in un mercato del lavoro che ci richiede una competizione continua, un apprendimento costante circa come sopravvivere azzannando gli altri. E che se i posti di lavoro sono pochi la questione non è tanto il loro esiguo numero ma che allora si dovrà competere di più per surclassare gli altri.

Credo che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in questo meccanismo che ci fa vedere gli altri come ostacoli al nostro potenziale successo. Chiariamo, la corsa all’accaparramento dei beni per la propria soddisfazione personale anche a costo di buttar già gli altri, veniva ritenuta l’unica configurazione possibile già da Hobbes, quasi quattrocento anni fa, mica ieri. Credo, però, che a rendere deleterio questo assioma sia la sua riproposizione attualizzata, ormai interiorizzata, che ci impedisce di percepire gli altri come persone di cui fidarsi. Quando in realtà navighiamo tutti negli stessi dispiaceri. Il cruccio di aver sbagliato tutto, di aver mancato il momento.

È da tempo che credo che alle persone della mia età andrebbe ricordato che anche noi valiamo. Che anche noi pensiamo. Che anche a noi verrà concesso di dimostrare che tutto quello che abbiamo pensato in qualsiasi facoltà ci rende liberi. Solo allora sarà commovente vedere che con la cultura, alla fine, non solo ci abbiamo mangiato, ma lavorato e, più poeticamente, sognato.


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