
Letteratura
Dall’apparenza all’abisso
Una lettura attuale di Les Belles Images di Simone de Beauvoir
A cura di
Benedetta Fossati
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I periodi di passaggio sono momenti di stasi, di immobilità. Si procede a tentoni nel limbo in cui ci si trova – in questo caso il limbo si chiama disoccupazione – e si riscopre il piacere della noia. Parlo della noia estiva che si prova solo da bambini: le giornate senza fine, la percezione dilatata del tempo, mente e corpo che fremono nella febbricitante ricerca di una qualsiasi occupazione. E poi la resa, stesi su un prato o sul letto a fissare il vuoto, mentre la mente viaggia.
Oggi ho 27 anni, è estate, il tempo si è ristretto, ma mi trovo a riprovare quella stessa noia. L’abilità nel fantasticare, però, non è la stessa, e la mente ha bisogno di tenersi occupata, soprattutto in un mondo in cui tutto scorre all’impazzata e non ci è permesso rimanere fermi a guardare il cielo.
Così mi capita di leggere. Leggo qualsiasi cosa mi venga proposta o sottoposta.
Non vi è un criterio nella scelta delle mie letture. Leggo – per nutrire la mente e l’anima, mi dico – ma la verità è che lo faccio per riempire il tempo, nell’epoca dell’horror vacui, in cui il vuoto – la stasi – non ci è concesso.
Ed è proprio in questo stato d’animo che, un giorno, mi sono imbattuta in una vecchia edizione Gallimard del 1992 di Les Belles Images di Simone de Beauvoir. Sentendomi costretta a non sprecare il tempo, decido di tenere allenato il mio francese – mi convinco. Ho pescato questo libro par hasard – direbbero i francesi – tra gli scaffali di una vecchia libreria a Milano. Nessun criterio di scelta, appunto, se non quello di una copertina colorata e di una lunghezza non minacciosa.
Inutile dirvi che, superato lo scoglio delle prime dieci pagine, in cui de Beauvoir sfoggia uno stile complesso e ipotattico per un lettore non esperto – come me – è inevitabile ritrovarsi in Laurence, la protagonista. Uso il verbo “ritrovarsi” perché non ci si limita a rispecchiarsi nella storia e nella coscienza di Laurence, ma ci si ritrova. Vi si trova una parte di noi stessi, quella parte sempre taciuta che de Beauvoir ci permette di guardare dall’esterno e di sentire dall’interno.
Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1966, racconta una sezione di vita: la vita è quella di Laurence, appunto, madre di due figlie (Louise e Catherine), moglie di un rinomato architetto (Jean-Charles), donna di successo nel campo pubblicitario – lavoro emblematico del boom economico e della nuova società capitalista – e amante di Lucien, uomo dolce e comprensivo.
De Beauvoir ci dipinge il quadro di una famiglia alto-borghese che vive nella Francia tecnocratica degli anni Sessanta, ancora segnata dalle ferite coloniali e animata dal fervore della ricostruzione che cerca nella modernizzazione tecnica e nella pubblicità una nuova identità nazionale.
È la Francia di De Gaulle, della guerra in Algeria, del processo di decolonizzazione e della filosofia esistenzialista. Al contrario dell’Italia, nella Francia del dopoguerra vi è un primato della filosofia. Vi è una netta autonomia del mondo intellettuale francese, che si rapporta in modo centrale alla politica – come dimostra de Beauvoir – senza tuttavia prendervi organicamente parte.
Vi sono elementi, all’apparenza superficiali, che posizionano il romanzo negli anni precedenti alla sua pubblicazione – Laurence legge un articolo intitolato “Crise entre l’Algérie et la France”.
Il romanzo vuole quindi analizzare come la classe tecnocratica francese degli anni Sessanta abbia affrontato i traumi individuali e collettivi, in particolare affidandosi a una fede incrollabile nel futuro, ignorando al contempo gli orrori della violenza bellica.
L’analisi si concentra tuttavia sulla rappresentazione della protagonista, Laurence, profondamente scossa dalla superficialità della società che la circonda, fatta di sole belles images.
Tutto è patinato. Tutto sembra funzionare. Ma è proprio attraverso questa superficie scintillante che il malessere si insinua. Laurence è tormentata da un disagio interiore, da un senso di vuoto che non sa spiegarsi. Il mondo le appare perfetto solo a livello di immagine. Un’immagine pubblicitaria, appunto. Ed è questo il nodo centrale del romanzo: la società moderna costruita sulle belles images, ovvero su rappresentazioni brillanti, desiderabili, perfette, ma vuote.
Con il procedere delle pagine, il quadro idilliaco inizia a sgretolarsi. L’inciting incident – prendendo in prestito un termine cinematografico – sono le domande e gli interrogativi che sorgono nella mente e nella coscienza della figlia maggiore. Catherine è una ragazzina di dodici anni che, grazie all’amicizia con Brigitte – una coetanea cresciuta senza madre, in un ambiente più libero e disilluso – inizia a interrogarsi sul dolore del mondo, quello raccontato dai giornali e dalla televisione.
La reazione della famiglia è netta: proteggere la bambina. Chiuderle gli occhi. Allontanarla da Brigitte. Mandarla da una psichiatra e continuare a farla vivere nella bolla delle immagini. È solo nelle ultime e concitate pagine che Laurence non ce la fa più e si oppone a questa risoluzione.
Inizia così la sua discesa – o risalita – verso una presa di coscienza. Comprende come anche lei sia stata educata a non vedere, a credere che una donna senza uomo sia incompleta, che il successo passi attraverso il compromesso, che l’autenticità sia un errore da correggere. Ma è attraverso Catherine che Laurence riesce finalmente a spezzare questo ciclo – élever un enfant, ce n’est pas en faire une belle image.
De Beauvoir accompagna questo percorso mostrando con lucidità estrema i personaggi che abitano il mondo borghese di Laurence. C’è sua madre, Dominique Langlois, minuta, elegante, brillante, eppure fragile. Costruita su un’immagine di durezza e giovinezza, Dominique crolla quando l’amante la lascia per una donna più giovane. Il suo ritorno con il marito non è guidato dall’amore, ma dalla paura dello scandalo.
Il padre di Laurence, invece, sembra inizialmente più autentico, ma si rivela altrettanto incastrato nel ruolo sociale: dopo aver vantato la propria indipendenza, accetta di tornare con la moglie per convenienza.
C’è infine Jean-Charles, il marito di Laurence. Immobile, reazionario, legato al denaro più che alla vita: rimprovera Laurence quando distrugge la macchina per evitare di investire un ciclista. È lui a voler allontanare Catherine da Brigitte, incapace di tollerare ogni deviazione da ciò che considera normalità.
Così si delinea un mondo borghese che rifiuta il dolore, la complessità, la diversità. Un mondo che preferisce le immagini – belle, levigate, rassicuranti – alla verità.
Colpisce la lucidità di de Beauvoir nel mostrare come la società borghese sia costruita sul rifiuto dell’alterità e della sofferenza. Laurence rappresenta una donna che vive consumando ed essendo consumata, bloccata in un’esistenza plastificata in cui il corpo stesso – e con esso, l’anima – è inghiottito dalla logica dell’apparenza.
La scrittura è chirurgica, sottile e penetrante. Inutile dire che Simone de Beauvoir ha la capacità di entrare nell’animo della protagonista, fino a trasformarla in una coscienza collettiva, un malessere condiviso e taciuto. Scritto negli anni Sessanta, questo romanzo non ha perso nulla della sua potenza critica.
La cosa più assurda, quasi inquietante, ma allo stesso tempo illuminante, è la sensazione che questo libro fosse stato scritto l’anno scorso. La sua lacerante sincerità e la sua dolorosa introspezione ci fanno dimenticare che stiamo leggendo la storia di una famiglia francese di più di mezzo secolo fa.
De Beauvoir mette a nudo l’interiorità di una donna, mettendo così a nudo l’interiorità di un’intera generazione – e forse, senza volerlo, dell’intera umanità. E questa stessa schiettezza la ritroviamo in libri contemporanei – Felici i Felici di Yasmina Reza, per citarne uno – in cui ci viene descritta una borghesia che vive in superficie, prigioniera di sé stessa, incapace di dirsi la verità.
Laurence, nella sua catarsi finale, vomita: un gesto violento, viscerale, che le permette di svuotarsi di tutto, tutto ciò che le hanno fatto ingoiare, tutto ciò che l’hanno costretta a divorare: Ils la forceront à manger, ils lui feront tout avaler; tout quoi? Tout ce qu’elle vomit, sa vie, celles des autres avec leurs fausses amours, leurs histoires d’argent, leurs mensonges[1].
[1] La costringeranno a mangiare, le faranno divorare tutto; tutto cosa? Tutto ciò che vomita, la sua vita, le vite degli altri con i loro falsi amore, le loro storie d’argento, le loro menzogne.
Traduzione dell’autrice dell’articolo.