Politica e Società

Chi vuole una città così?

Riflessioni sulla Città Neoliberista

Tratto dalla rivista N.05

A cura di

Nora Lotti, Lorenzo Villani

Immagini di

Simona Cavallari


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Con questo interrogativo si apriva lo studio condotto dal professore Bicocchi sulla città di Firenze nel 1973. La ricerca, portata avanti da un gruppo di urbanisti dell’Università di Firenze, analizza il rapporto tra il centro storico e le periferie, individuando la frattura destinata ad ampliarsi nei decenni successivi. Il centro cittadino era descritto come il cuore economico, burocratico e amministrativo della città. Le immediate periferie, invece, erano dipinte come luoghi esclusi da qualsiasi sviluppo, in cui la marginalità e la povertà si diffondevano in maniera generalizzata tra la popolazione.

La Firenze fotografata da Bicocchi è certamente diversa da quella attuale. Permane tuttavia una storica distanza. 

La periferia circonda la città, scruta ogni suo sviluppo, spesso perpetuando l’illusione di sentirsi partecipe di ogni suo cambiamento.

Ma ogni occasione di evoluzione e avanzamento non è detto sia destinata a entrambe le componenti della città.

Gli scarsi collegamenti fra centro e periferia determinano una dinamica di lontananza apparentemente irremovibile. Il distacco fra ciò che rimane dentro e ciò che, invece, è destinato all’esterno innesca un meccanismo di esclusione fra coloro sui quali grava il peso dell’emarginazione. 

“La tragedia al cantiere dell’Esselunga di Via Mariti è stata, purtroppo, la rappresentazione dolorosa di come la città neoliberista sia sempre più ostile ai soggetti vulnerabili. Quando nel quartiere si sviluppò il dibattito sulla destinazione dell’area dell’ex panificio militare, fu proposto di aprire un polmone verde in un quartiere non così pieno di ampi giardini. Ovviamente prevalsero le ragioni del profitto e, nonostante le perplessità degli abitanti della zona, si iniziò a costruire la mole di cemento crollata ieri”.

Ad affermarlo è Salvatore Cingari, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Perugia. La strage che ha avuto luogo in Via Mariti è il riflesso di una città dilaniata dall’accumulazione del profitto, le cui conseguenze gravano sulle vite di coloro che vi abitano e vi lavorano.

Disuguaglianze, precarietà, solitudine e incertezza sembrano oggi elementi egemoni all’interno delle nostre città. Esiste una logica che lega questi fattori? 

Ho ascoltato con amarezza le parole di uno degli operai sopravvissuti, non inquadrato nel volto dalle telecamere, che sosteneva di non nutrire “rabbia” in quanto nessuno ha colpa di un incidente. Non è facile capire se fosse prevalente l’inconsapevolezza o la paura. Ma entrambe queste posture sono tipiche di chi vive la città neoliberista. Inconsapevolezza dei propri diritti e del ruolo del condizionamento sociale negli eventi. Paura di perdere quel poco di lavoro precario che si è riusciti a meritare, retribuito con paghe ormai tornate al livello di sussistenza. I notiziari e i talk show insistono sulle irregolarità su cui la magistratura dovrà fare chiarezza. A stento emerge la consapevolezza che il problema di fondo non sia la violazione delle regole, bensì le regole stesse. 

La città neoliberista mette al centro il mercato e la competizione fra i soggetti, non il bene comune. L’idea fallace è che la competizione regolata produca quel bene pubblico invano (secondo questa visione) cercato nella cooperazione, nell’aggregazione in partiti e sindacati, nell’associazionismo democratico, che della città di Firenze era vanto e gloria.

Ma questa logica è diametralmente opposta a quella della nostra Costituzione. Salvini ricorda che le normative sui subappalti sono state imposte dall’Unione europea (ma implementate da lui in forme particolarmente frantumanti), la cui “costituzione economica” sta infatti nel tempo erodendo la matrice sociale della nostra Repubblica, appartenente non solo alle tradizioni politiche più legate al movimento operaio, ma anche al cattolicesimo democratico e alla democrazia laica di matrice popolare. Nel 1999 Richard Sennet (L’uomo flessibile, Feltrinelli, 2000) spiegò come la precarizzazione del lavoro finiva per rompere la narratività dell’esperienza dei soggetti, impedendo lo svolgersi di ogni trasmissione pedagogica di valori e di saperi. E così, poi, può accadere di vedere dei metalmeccanici farsi seppellire sotto le colonne di cemento di un cantiere edile.

Come può essere descritta la città neoliberista?

La città neoliberista non è la città liberale. Quest’ultima dava un ruolo di primo piano al mercato nell’ambito della sfera economica, all’interno di una più complessa dimensione di limiti valoriali, politici, etici e culturali, mentre la prima innalza la ricerca del profitto e della performance concorrenziale a modello dell’intera vita individuale e sociale. Purtroppo, negli ultimi anni Firenze è stata una delle più esemplari città neoliberiste, in cui si è pensato più alla presunta eccellenza che allo sviluppo dell’intero corpo sociale. Subito dopo la tragedia ho sentito politici di governo e di opposizione sostenere in coro che per contrastare le morti bianche è necessario diffondere a scuola l’etica della sicurezza sul lavoro. Cosa può questo rispetto a un senso comune diffuso, sempre più lontano dal far percepire la rabbia di fronte alle ingiustizie e a canalizzarla verso l’aggregazione e il conflitto democratico? 

La domanda da porsi sarebbe quindi: chi vuole (ancora) una città così? 

E la risposta potrebbe essere scontata: chi ha interesse affinché la ricchezza cittadina non venga redistribuita. Chi, cioè, trae vantaggio dalle disuguaglianze di oggi. 

Marginalità socioeconomica e marginalità fisica e spaziale, dunque, si intersecano e si rafforzano reciprocamente, rendendo necessario e urgente ripensare la città. Che si abbandoni l’idea che altro non sia che materia, strade, piazze e palazzi, abbracciando una prospettiva fortemente relazionale, collaborativa e processuale, che si riconosca il ruolo centrale delle interazioni, delle storie e delle identità che la abitano.

Città relazionale e città materica coesistono in uno stesso spazio, interagendo e plasmandosi l’un l’altra in quanto, come afferma Baur, gli spazi influenzano il nostro comportamento.

E se è vero che un luogo o una città possono renderci più chiusi e scontrosi, è anche vero che possiamo intervenire, come collettività, per cambiarli. Questo è ciò che sta accadendo a Barcellona, dove si è deciso di pedonalizzare buona parte delle strade, trasformandole in aree verdi, e di convertire alcuni incroci in piccole piazze, creando nuovi luoghi di interazione e modificando radicalmente il modo in cui i cittadini si muovono e si relazionano con gli altri e con lo spazio.

Allo stesso tempo l’individuo può e deve contribuire al continuo processo di riappropriazione, co-progettazione e riassegnazione di significato degli spazi pubblici. 

E se emerge quindi in maniera chiara che per avviare un processo di cambio di paradigma sono necessari interventi sistemici, è anche vero che singolarmente possiamo contribuire a innescarlo, trasformando le strade del nostro quartiere in grandi sale da pranzo, organizzando social street dinners o, semplicemente, fermandoci a leggere in una piazza, trasformando quindi luoghi di passaggio in luoghi dello stare.

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