Musica

Capire, amare, ricordare: trent’anni dalla morte di Kurt Cobain

Il leader dei Nirvana, alfiere del genere grunge, con la sua morte è diventato martire perché si è fatto testimone di qualcosa di grande

A cura di

Lorenzo Marsicola

Immagini di

Darthie-art


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Ieri, 5 aprile, correvano i trent’anni dal suicidio di Kurt Cobain, musicista, poeta, icona, martire. Tanto si è detto e tanto si è scritto su di lui e sulla di lui morte. Tante belle parole sono state spese, come altrettante bugie, illazioni, pettegolezzi sono girati e continuano tuttora a circolare su una delle figure più importanti non solo della musica del secolo scorso, ma in generale della Storia dal Dopoguerra in poi. È impresa ardua e forse inutile cercare di spiegare l’impatto mediatico e allo stesso tempo così personale che l’artista statunitense ha avuto sulla vita di milioni di persone. Tanto per capirci, a seguito del suddetto suicidio, il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, si preoccupò seriamente di dover tenere un discorso alla nazione, rivolto in particolare ai giovani, per paura che si moltiplicassero i tentativi di emulazione da parte dei milioni di fan della band di Seattle. Fortunatamente niente di ciò che gli esperti temevano accade.

Il fenomeno del Grunge

Ciò non toglie che quello che Kurt Cobain ha rappresentato, e continua tutt’oggi a rappresentare, va ben aldilà della musica. I Nirvana, ma lui in particolare, sono stati eletti, anche contro la loro volontà, a simbolo di un’intera generazione e di un movimento, il grunge, che ha segnato una spaccatura, a livello storico e culturale, almeno nel mondo occidentale. Il grunge, citando le stesse parole di Kurt, nasce sulla scia del punk, movimento legato piuttosto al decennio precedente. E come il punk, il grunge rinnega gli anni ’80, sia culturalmente che musicalmente. Negli anni ’80 l’eccesso, la superficialità, l’ottimismo, la voglia di divertimento dopo le durissime lotte degli anni ’70, la facevano da padroni. Il grunge rigetta tutto ciò: è una ribellione, in piena regola, ma diversa da tutte quelle che l’avevano preceduto. Il legame tra rock e politica, rock e società, è un fattore costante dal Dopoguerra in poi. Pensiamo agli anni’60 e ’70, o anche al punk stesso, che nasce sul finire di quest’ultimo decennio.

La ribellione, dentro e fuori

Tuttavia, la ribellione del grunge è decisamente diversa. Certo, alcuni aspetti coincidono. È una rivolta generazionale e giovanile, tanto per cominciare. E il mezzo, come sempre, è la musica. Ma quel che cambia è la direzione. Negli anni’60, ad esempio, la volontà era quella di indirizzare verso l’esterno il proprio grido di rabbia, contro la guerra, contro una società ancora non realmente uscita da alcuni meccanismi e dinamiche tradizionaliste e conservatrici: ai missili e all’esercito si risponde con i fiori e l’amore verso il prossimo. Alla mentalità bigotta delle classi dirigenti con la trasgressione del rock ‘n roll, con l’eccesso.

Lo stesso si può dire del punk, che di fronte a una società sempre più omologata e stanca di contestare, sale sul palco e fracassa chitarre, sputa sul pubblico e se ne frega dell’ordine. Il grunge, per quanto in parte si rispecchi in queste posizioni, ha però una svolta molto più personale e introversa. La trasgressione non va più solo verso l’esterno ma anche, e a mio parere soprattutto, verso l’interno. Mi spiego meglio: tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 il mondo cambia in maniera drastica. Il muro sta crollando, l’epoca delle lotte è finita. È nata la televisione commerciale come la conosciamo.

Gli Stati Uniti diventano veramente il centro del mondo, senza più un vero rivale. E le generazioni che hanno conosciuto la Guerra Fredda, il pericolo atomico, il Vietnam, gli anni di piombo, intravedono un futuro diverso, luminoso, ottimista. su questo sfondo, nasce il grunge. Nasce da una generazione nuova, che non ha conosciuto tutto ciò, che si è formata negli anni ’80, anni controversi per tanti motivi, e che non condivide minimamente questo ottimismo diffuso. Anzi, si rende conto che tutta questa narrativa non è che un’illusione. La caduta del Muro non ha risolto un bel niente. Basta spot promozionali, basta American Dream, basta Saturday Night Fever. Perché la società, in verità, non è minimamente cambiata, e ancora si rifiuta di ascoltare i problemi dei propri giovani. Che sono sempre più incompresi, più isolati. E qui entra in scena il grunge, che raccoglie tutta l’insoddisfazione, le preoccupazioni e la rabbia della cosiddetta Generazione X e la metta in musica. Una musica fatta di frustrazione, urla, suoni ruvidi, testi e arrangiamenti semplici ma tremendamente efficaci.

Le droghe e i suicidi

Allo stesso tempo, però, la protesta non è verso l’esterno, ma viene interiorizzata. I testi, le parole del grunge parlano tutti dell’individuo, dell’animo. Della rabbia, della depressione, della solitudine. Che riguardano poi tutti gli interpreti di questo nuovo movimento musicale, i cui interpreti, a partire da Kurt Cobain, sono in gran parte morti di overdose o per suicidio, ammesso che le due cose siano separabili: Layne Staley degli Alice in Chains (lo stesso giorno di Kurt ma 8 anni dopo), Andrew Wood dei Mother Love Bone, Scott Weiland degli Stone Temple Pilots e Chirs Cornell dei Soundgarden e Audioslave.

L’uso di droghe, e in particolare di eroina, è stato fin troppo spesso etichettato come una moda del tempo, da chi non ha capito il diretto collegamento fra l’abuso di sostanze e la filosofia stessa del grunge: questo era, o è, se ci credete ancora come il sottoscritto, ribellione interiore, isolamento da una società in cui non ci si riconosce e che non ci comprende, che identifica i propri componenti come numeri e non come persone. Il grunge è per sua definizione autodistruttivo, allegoricamente e materialmente. Il nemico non è più una società bigotta, ma una società che finge di non esserlo, superficiale e incomprensibile, assetata di notizie e nuove mode da cavalcare, da buttare nel calderone, fregandosene delle reali motivazioni. Una società in cui sempre di più domina l’immagine, la corrente del momento.

Cobain, l’antidivo

E questo ultimo punto ci riporta alla morte di Kurt Cobain, che non voleva essere famoso. Amato sì, ma non famoso. Ma una generazione priva di idoli e ideali in cui credere, ne ha fatto, senza che lui volesse, e senza rendersi conto degli effetti devastanti che ciò avrebbe avuto, il proprio portavoce. Ma se fosse stato solo questo, non saremmo probabilmente qui a parlarne. La società, il sistema o come vi pare ha captato tutto ciò e lo ha cavalcato, martoriando Kurt Cobain come tanti altri esponenti del grunge, spingendoli fino al suicidio, ultimo atto di ribellione. Tramite interviste, scatti indesiderati, impegni continui. Tutto ciò gestito da giornalisti, personaggi televisivi che del grunge se ne fregavano altamente. Qualcosa di molto attuale, mi sento di dire. Kurt Cobain e il grunge sono stati uccisi. Sono stati sfruttati e pubblicizzati fino a consumarli da televisioni, programmi, eventi. Ma, citando il sommo Neil Young, le cui parole Kurt riprese nella propria lettera di addio, che riportiamo integralmente a seguito di questo articolo, it’s better to burn out, then to fade away. Meglio morire da eroi, che diventare il cattivo.

“Vi parlo dal punto di vista di un sempliciotto un po’ vissuto che preferirebbe essere uno snervante bimbo lamentoso. Questa lettera dovrebbe essere abbastanza semplice da capire. Tutti gli avvertimenti che ho ricevuto dalla scuola base del punk-rock nel corso degli anni, fin dai miei primi contatti, per così dire, con l’etica dell’indipendenza e dell’abbracciare la propria comunità si sono rivelati esatti. Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio, quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla cominciare, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddie Mercury, che adorava la folla e ne traeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo (e l’apprezzo, Dio mi sia testimone che l’apprezzo, ma non è abbastanza).

Ho apprezzato il fatto che io e gli altri abbiamo colpito e intrattenuto tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. Io sono troppo sensibile. Ho bisogno di essere un po’ stordito per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino. Durante gli ultimi tre nostri tour sono riuscito ad apprezzare molto di più le persone che conoscevo personalmente e i fan della nostra musica, ma ancora non riesco a superare la frustrazione, il senso di colpa e l’empatia che ho per tutti. C’è del buono in ognuno di noi e penso che io ami troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile, ingrato, Pesci, Gesù santo! Perché non ti diverti e basta? Non lo so. Ho una moglie divina che trasuda ambizione ed empatia e una figlia che mi ricorda troppo di quando ero come lei, pieno di amore e gioia.

Bacia tutte le persone che incontra perché tutti sono buoni e nessuno può farle del male. E questo mi terrorizza a tal punto che perdo le mie funzioni vitali. Non posso sopportare l’idea che Frances diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me. Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall’età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo un bambino incostante, lunatico! Non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

Pace, amore, empatia. Kurt Cobain.

Frances e Courtney, io sarò al vostro altare.

Ti prego Courtney continua ad andare avanti, per Frances.

Perché la sua vita sarà molto più felice senza di me.

VI AMO. VI AMO.”

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