Politica e società

A che punto è la meritocrazia?

Intervista al prof. Cingari, docente di Storia delle dottrine politiche

A cura di

Lorenzo Villani

Immagini di

Rawpixel


☝🏻 Condividi se ti è piaciuto!

La retorica meritocratica invade qualsiasi ambito sociale: dalle scuole alle università, dal lavoro al tempo libero. La pervasività di tale narrazione genera un individuo capace di interiorizzare nel corso della sua crescita parametri di giudizio in linea con un’interpretazione individualistica di ogni sua attività, dei suoi meriti e dei suoi demeriti. Tutto questo avviene perché l’apparato culturale neoliberista esige che il concetto di responsabilità venga declinato in senso individualista.

Per capire i lineamenti generali del mito della meritocrazia è utile sottoporre alcune domande al professor Salvatore Cingari, autore del libro “La Meritocrazia” (Ediesse- Futura, 2020) e professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università per Stranieri di Perugia.

Professore, al netto della pervasività che la retorica meritocratica riscontra nella nostra società viene da pensare che l’esistenza di una narrazione che si orienta nella direzione di una costante responsabilizzazione del singolo sia funzionale al mantenimento di precisi equilibri. In che modo il sistema di valori che ruota attorno alla meritocrazia è necessario al funzionamento delle nostre società?

Come giustamente hai appena detto, la meritocrazia è parte di un dispositivo di produzione del soggetto. Non si tratta soltanto di un’ideologia che – come ha sostenuto Nancy Fraser – surroga la giustizia sociale consentendo anche a narrazioni progressiste di giustificare le crescenti diseguaglianze.

Ma essa è anche il valore centrale dell’idea dell’essere umano come imprenditore di se stesso. La meritocrazia è cioè alla base della polverizzazione della nostra società, in cui le persone rispondono al disagio cercando soluzioni individuali, nell’idea che il duro lavoro o le idee brillanti possano costituire la salvezza, possano sottrarci al destino della marea dei sommersi aprendoci le porte del successo o anche soltanto quelle di una vita dignitosa e tranquilla.

Mentre invece la realtà è che la globalizzazione e la finanziarizzazione del capitalismo hanno reso la crescita e la produttività non linearmente proporzionali al benessere collettivo.

Solo pochi se ne avvantaggiano: uno su mille ce la fa, nonostante che le fatiche siano di molti e i talenti plurimi e inespressi. Ma in questa situazione, non è più la cooperazione con chi condivide la stessa condizione sociale e la lotta comune per affermare i propri diritti contro la concentrazione di ricchezza e potere a costituire la prassi generalizzata, bensì la corsa disperata ad affermare se stessi, in una sorta di borghesizzazione (anzi piccolo-borghesizzazione) totale della società. Ciò disinnesca alla radice il conflitto, a cui si sostituiscono gli animal spirits ossessivamente protesi alla gara, alla competizione, alla guerra quotidiana, in una tossica gabbia d’acciaio performativa su cui bene ha scritto Byung-chul Han.

In tal modo il grosso della popolazione, impegnata a difendersi e contrattaccare individualmente, è sempre più esposta e vulnerabile e quindi obbediente ai voleri dell’unica classe ormai organizzata e cooperante e cioè quella dei detentori del capitale che hanno al loro servizio la classe politica e i mass-media. Con la pandemia e le necessarie misure di lockdown, la situazione è peggiorata, ma non per un complotto studiato: bensì perché la macchina del profitto utilizza ogni situazione a suo vantaggio, anche quella più tragica.

E così il consolidamento dell’utilizzo delle piattaforme, diventando permanente, ha ancor di più accelerato il processo di individualizzazione. Il fallimento diventa perciò una questione privata, di cui responsabilizzare solo se stessi, fino anche al suicidio (si pensi all’aumento dei casi fra gli stessi studenti). E quando la rabbia non si canalizza su se stessi viene rivolta verso i soggetti ancora più vulnerabili, come gli immigrati clandestini o le partner femminili di maschi in crisi di identità e riconoscimento.


Proprio su una delle piattaforme a cui si accennava prima, Netflix, è disponibile una serie tv brasiliana che parla appunto della meritocrazia, Tre per cento, in cui si fa riferimento a un mondo di diseredati subalterno ad un tre per cento selezionato tramite test, che sopravvive anche grazie ad una sorta di religione del processo di selezione, in cui la prospettiva di poter essere scelti o che i propri figli lo siano, diventa l’unica speranza per sostenere una vita priva di alcuna gratificazione.

Ma si pensi anche ai vari talent show, che insegnano a vedere la vita come una gara a punti, in cui bisogna vincere una competizione in cui al massimo si sfoggia la propria eccellenza proprio nella capacità di essere compassionevoli con gli sconfitti.
E’ una specie di ritorno all’Ottocento, in cui la pedagogia del self-help, prima nei paesi anglosassoni e poi anche in Italia nella seconda parte del secolo, insegnava ad ognuno a stare al proprio posto con rassegnazione, fondando la propria sicurezza sul risparmio e fidando nella certezza che i meritevoli sarebbero riusciti a salire nella scala sociale.

Nel corso della sua evoluzione, il concetto di meritocrazia ha subito dei mutamenti. Si possono individuare delle fasi principali che hanno consentito l’applicazione di diverse chiavi di lettura del concetto?

Michael Young, nel suo The rise of meritocracy del 1958, utilizzò la parola meritocrazia – già apparsa in un articolo di due anni prima del sociologo laburista Alan Fox – per criticare il sistema scolastico inglese basato su un esame a undici anni e su una tripartizione della destinazione scolastica a seconda dei risultati, ritenendolo falsamente democratico. Infatti era normale che la maggior parte dei destinati alla Grammar School fossero figli di famiglie benestanti, in cui il contesto familiare e sociale ha costituito un fattore decisivo di vantaggio.

Ma Young mirava anche a criticare un sistema di welfare che, come l’azienda fordista, appariva incapace di far partecipare attivamente i lavoratori nelle decisioni, distinguendo la società in base ai ruoli e ai titoli di studio. Questo tipo di declinazione della meritocrazia fu alla base della critica dei giovani del ’68, che ne ritrovavano i connotati anche nella scuola unica nata dalla critica del sistema selettivo sul tipo dell’eleven-plus e nell’università di massa. Bourdieu spiegava infatti come le diseguaglianze si sarebbero riprodotte in un ambiente che metteva in competizione soggetti provenienti da contesti diversi: se la selezione non avveniva, cioè, a monte, si imponeva a valle.

Allo stesso modo la meritocrazia veniva criticata in fabbrica per il modo con cui i padroni, con le premialità, accrescevano la subalternità e dipendenza dei soggetti dal proprio arbitrio. Con la ristrutturazione del capitalismo in senso postfordista, che – come han spiegato Boltanski e Chiappello – ha sussunto alcune delle richieste di libertà della contestazione sganciandole dalla critica sociale allo sfruttamento, non è venuto meno il produttivismo alla base del sistema, con la differenza che ora esso è totalmente gestito dai padroni che non han quasi più una controparte sociale e una conflittualità da gestire.


Direi che mentre all’epoca di Young la meritocrazia era un dispositivo a cui i laburisti finivano per assoggettarsi, costruendo un sistema di welfare gerarchico e patriarcale sul modello della fabbrica, ora è la vita stessa e non solo la fabbrica o il servizio pubblico a esserne intessuti. Il neoliberalismo è appunto anche questo: un mercato che non solo la vince sulla vita ma che, non avendo antagonista nella società, ormai produce la vita stessa delle persone, identificandosi con essa.


Ma il concetto di meritocrazia esisteva già prima del conio del termine. Direi dall’illuminismo in poi. Il tema di dare potere al merito ebbe un effetto rivoluzionario in quanto si contrapponeva ai privilegi di antico regime, al particolarismo e corporativismo del sistema aristocratico. Tuttavia, fra rivoluzione industriale e rivoluzione francese il potere del merito tende da subito a trasformarsi in un dispositivo che aprendo la sfera direttiva a nuovi soggetti a prescindere dalla nascita, la chiude comunque alla maggior parte della popolazione. La versione giacobina della democrazia viene così contrapposta alla capacità che, ad esempio nel sansimonismo, è il concetto intorno a cui costruire il nuovo ordine gerarchico. La questione sociale viene appunto sollevata in quanto la selezione proposta dalla gara capitalistica finiva per riprodurre le diseguaglianza di epoca aristocratica.

Per questo da Blanc a Marx viene affermata una nuova visione: da ognuno secondo le proprie capacità a ognuno secondo i suoi bisogni. Il costituzionalismo democratico che si afferma dopo la seconda guerra mondiale tende appunto a ridelineare tale ispirazione utopica nell’idea realistica dei diritti sociali volti a rispondere gratuitamente ai bisogni dei soggetti, per consentire ad ognuno lo sviluppo della propria personalità (vedi l’art. 3 della Costituzione italiana). Inutile rilevare come l’attuale insistenza sul merito, dal governo Draghi a quello Meloni, sia la spia di un attacco fontale all’eredità redistributiva e universalistica della tradizione del movimento operaio e del costituzionalismo democratico.

Per un ulteriore approfondimento rimandiamo ad un precedente articolo di Lorenzo Villani https://www.ratparkmagazine.com/2023/06/27/insostenibile-leggerezza-della-meritocrazia/

Lascia un commento

Torna in alto