Velvet Underground

Musica

The Velvet Underground & Nico, il primo gruppo indie della storia

In bilico tra icona pop e musica di nicchia, la band di Lou Reed ha rivoluzionato la musica come arte e come industria

A cura di

Bernardo Maccari

Immagini di

Thatspep via Flickr


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Quando si parla dei The Velvet Underground è facile che venga citato un famoso commento attribuito a Brian Eno, il quale parrebbe aver detto che:

Il primo album dei The Velvet Underground ha venduto solo 10.000 copie, ma tutte le persone che lo hanno comprato hanno formato una band”.

Brian Eno e l’influenza dei Velvet Underground

Se anche non fosse stato Eno a dirlo, o anche se non lo avesse mai effettivamente detto nessuno, rimarrebbe un modo particolarmente efficace per descriverli. Questo non solo perché, effettivamente, il primo, omonimo album della band ha venduto male. Ma anche perché, come è stato ripetuto all’infinito, col senno di poi è cosa probabilmente corretta considerarlo nel novero degli album più influenti del secolo scorso.

Ora, sgomberato il campo da due delle considerazioni assieme più comuni e più corrette che si possono fare trattando l’argomento – riassumendo: la loro enorme influenza non ha avuto pari riscontro commerciale – si potrebbe azzardare un’ulteriore considerazione, definendo i The Velvet Underground come una band “indie” nel senso moderno del termine.

Cosa s’intende per “band indie”?

Bollandoli come tali, si potrebbe provare a giudicarli, ad ascoltarli, con le orecchie dell’ascoltatore moderno, che li ha incontrati scorrendo annoiato una playlist generata dall’ algoritmo di Spotify. La famigerata etichetta in questo caso non nasconde un giudizio qualitativo, ma è più lo spunto per una riflessione: possono essere i The Velvet Underground considerati come una delle prime, se non la prima band con le caratteristiche che, ad oggi, spingono critica e pubblico a considerare una band “indie”?

È necessaria una precisazione: quando si parla di musica indie si intende un genere musicale che genere musicale di fatto non è. Letteralmente una band o un cantante indie sono tali solo se la loro musica viene prodotta da un’etichetta cosiddetta “indipendente”, quindi slegata dalle quattro grandi etichette discografiche – Sony, Universal, Emi e Warner Music – che esercitano un oligopolio di fatto sul mercato musicale.

Quando dico “slegata” intendo totalmente slegata; un’etichetta indipendente è tale, teoricamente, solo se con esse non ha alcun collegamento. Più facile a dirsi che a farsi, considerando che le sopra citate Big Four posseggono una miriade di succursali minori con cui esercitano un controllo capillare sull’industria musicale.

Il risvolto pratico di questa situazione è abbastanza scontato: gli artisti veramente indie sono solitamente sconosciuti a un pubblico non appassionato; e quando, faticosamente, riescono a ritagliarsi uno spazio sotto i luminosi riflettori del grande pubblico è perché hanno firmato con una major. Se ci riescono, ed è particolarmente difficile, senza il supporto almeno indiretto di una di esse, molto probabilmente una di esse prima o poi li nota e li mette sotto contratto.

L’indie non è un genere

Paradossalmente, quindi, il genere musicale che si è soliti definire “indie” non indica un certo tipo di sonorità, variamente declinato, che accomuna un certo tipo di artisti. Cionondimeno, i risvolti pratici del produrre per una casa discografica indipendente, solitamente più lassista e incline alla sperimentazione, meno ancorata a dinamiche di mercato, anche a causa di mezzi economici inferiori, hanno reso una sorta di rifiuto o comunque di disinteresse per i meccanismi dominanti nell’industria musicale di un dato periodo storico il minimo comune denominatore degli artisti “indie”, dando vita a quello che è considerato a tutti gli effetti un genere.

A questo punto è però importante fare un’altra considerazione: non solo gli artisti indie nel senso stretto del termine hanno prodotto o producono musica definibile, bambinescamente, “ribelle”. Al contrario, artisti universalmente affermati con contratti milionari per una delle majors spesso si sono lasciati andare, anche con grande successo, a sperimentazioni musicali che gli valgono serenamente un posto alla tavola degli artisti veramente indie. E questo è il caso anche dei The Velvet Underground, sotto contratto grazie all’intercessione di Andy Warhol con la Verve Records, succursale della Universal Music.

Il suono sfuggente dei Velvet underground

Allora, se i Velvet Underground non sono veramente indie perché dovremmo considerarli precursori del genere? Perché in fin dei conti a identificarlo non è tanto una specifica sonorità, l’utilizzo di specifiche tecniche di registrazione o di specifici strumenti musicali, o di specifici contenuti a livello di testo o melodia. È invece un approccio non specificamente definibile, si potrebbe dire quasi sfuggente, all’atto di fare musica, con cui tantissimi artisti negli ultimi decenni si sono confrontati attraverso il loro compasso creativo, dando l’impressione, magari anche affettata, di star facendo qualcosa di diverso. In questo, i Velvet Underground sono stati unici e lo sono stati con grande consapevolezza.

Lou Reed, Andy Warhol e John Cale

La cifra stilistica della band newyorchese è dovuta a tre fattori di influenza principali: il primo, Lou Reed. Frontman della band, carismatico ed egocentrico, cantava di droga, tossicodipendenti, prostitute e schizofrenici con una cadenza parlata e amelodica, primo o fra i primi a chiamare certe cose con il proprio nome in un brano musicale.

Il secondo, John Cale: polistrumentista e compositore gallese, musicista con tutti i crismi e un’educazione classica alle spalle, a cui sono affidate basso, tastiere, e viola. Il terzo, Andy Warhol: deus ex machina dietro alla registrazione del primo album e primo fra i primi a credere che i Velvet Underground meritassero di essere ascoltati, oltre che mecenate del gruppo, a cui venne l’idea di far cantare a Nico alcuni dei brani del primo album.

Questo miscuglio di intenzioni creative divergenti è stato calato in un ambiente esplosivo come lo Studio 54, principale avamposto del regime culturale dello stesso Warhol. Il risultato sono musiche con inconfondibili elementi del rock classico di quegli anni, soprattutto in certi brani, uniti a distorsioni talmente disturbanti che sembrano avere il solo scopo di creare angoscia in chi ascolta, esacerbati da tecniche di registrazione volutamente grezze.

Un esempio è “Venus in furs”, brano manifesto della poetica della band, caratterizzato dal suono della viola di John Cale. E a contorno delle musiche uno status da leggende urbane, una fama limitata agli habitué di certi club di certi quartieri di certe città. Status allo stesso tempo disprezzato e apprezzato, soprattutto da Lou Reed, che desiderava, quasi pretendeva, la fama, ovviamente nei suoi termini.

Una band pop senza essere per tutti

I Velvet Underground si sono trovati dunque in una situazione assolutamente atipica: all’intenzione di proporre qualcosa di nuovo per il loro tempo, faceva da contraltare lo scarso successo commerciale. Allo status di artisti autentici, cool, faceva da contraltare il desiderio di raggiungere il successo vero e proprio, di essere apprezzati dal grande pubblico. Rappresentavano un simbolo della sottocultura avanguardista di New York, ma volevano essere una band pop. Volevano esserlo, ma non nei modi canonici. Volevano essere i Velvet Underground, ma volevano che i Velvet Underground fossero diversi da quello che erano diventati. Tutto questo, in pratica, dopo la sola uscita del primo album.

Non è difficile immaginare che tale coacervo di conflitti e contraddizioni abbia avuto breve durata: dopo il primo album, nel 1967, Andy Warhol fu sollevato dal ruolo di manager. Nel 1969, dopo l’uscita del secondo album, “White Light/White Heat”, John Cale si allontana su richiesta di Lou Reed, che voleva abbandonare quel suono sperimentale caratteristico della band, per tentare il salto di qualità a livello di vendite. Dopo l’uscita dell’album “Loaded” datata 1970 però, lo stesso Lou Reed decide di lasciare e dedicarsi alla carriera solista. L’ultimo album, “Squeeze”, che quest’anno spegne la sua cinquantesima candelina, è un album dei Velvet Underground solo sulla carta.

Velvet Underground precursori di un genere

La verità è che sì, i Velvet Underground sono stati una band che rientra nei canoni di quelle che oggi definiamo indie, ma ancor prima che rientrare in quei canoni hanno contribuito a crearli. Nonostante siano durati poco, l’uso volutamente perverso che hanno fatto dei meccanismi comunicativi tipici della musica del loro tempo li ha resi un simbolo, ancora attuale, dell’importanza delle intenzioni che stanno dietro l’atto creativo.

E quindi, anche se hanno avuto scarso successo commerciale, rimangono un passaggio fondamentale nella storia della musica e in particolare della musica indie. Perché se anche definirli una band indie è limitante, la sfrontatezza e la veemenza con cui hanno voluto essere, o perlomeno mostrarsi, autentici, ha avuto un impatto ramificato sulle 10mila band di cui parla Brian Eno, e probabilmente su molte altre.

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