Solitudine

A cura di

Giovanna Di Pietro

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Giovanna Di Pietro


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Per chi come me si trova a metà dei suoi vent’anni, vivere da soli è un sogno. L’indipendenza acquisita supera di gran lunga qualsiasi lato negativo, tipo i coinquilini di merda. Se le relazioni sociali, con amici, coinquilini e colleghi, hanno arricchito la mia vita universitaria e facilitato l’uscita dalla casa dei miei, vivere da sola mi sembra un passo necessario in direzione della vita adulta.

Eppure, non siamo fatti per questo. Infatti, vivere da soli o in piccole unità familiari è un’abitudine sociale relativamente nuova, che sostituisce le grandi comunità interconnesse in cui ci siamo organizzati per secoli. Gli ideali che guidano lo stile di vita contemporaneo, sempre più legato al lavoro e al benessere individuale, stanno generando una vera e propria emergenza sanitaria, ulteriormente acuita dall’isolamento del lockdown pandemico. Al punto, secondo la sociologa Jenny van Hoof, che le persone pensano di poter essere completamente autosufficienti dagli altri.

La maggior parte delle ricerche segnalano un rapporto causa-effetto tra connessioni sociali e salute, arrivando ad affermare che “la solitudine è letale quanto fumare 15 sigarette al giorno”, dove per solitudine non si intende l’essere soli, ma il sentirsi disconnessi dagli altri. Secondo lo psichiatra Robert Waldinger, il direttore di una ricerca di Harvard iniziata nel 1938 e ancora oggi in corso, ciò che ci rende felici e in salute sono le connessioni sociali che ci creiamo nell’arco della nostra vita.

L’Harvard Study of Adult Development ha seguito circa 720 uomini lungo la loro vita, monitorando condizioni di vita e benessere, e continua a seguire quelli tra loro ancora in vita. Il risultato più importante di questa ricerca è che sono le relazioni con gli altri a tenerci in vita, meglio e più a lungo. Ciò è stato confermato da recenti studi in Germania, secondo cui la compagnia e il supporto dei nostri cari sono l’antidoto migliore contro lo stress.

Soprattutto, sentirsi parte di una comunità può essere un antidoto contro l’estremismo politico. Secondo Noreena Hertz, autrice de Il secolo della solitudine, gli individui che non si sentono supportati dalla comunità e dalle istituzioni, nutrono una sfiducia che “li espone al richiamo del populismo e degli estremisti politici”. Infatti, più ci sentiamo distanti dagli altri, più diventa difficile colmare le differenze politiche, che si trasformano velocemente in divari ideologici insanabili.

In Italia, solo il 15% dei cittadini sente di appartenere pienamente a una comunità. Al contempo, il 60% dei giovani sente di contare poco nell’ambiente in cui vive. I numeri erano anche peggiori durante la pandemia, quando circa il 32% degli italiani tra i 18 e i 34 anni aveva dichiarato di “soffrire spesso” di solitudine.

I dati rivelano un’insoddisfazione acuta, sentita anche negli altri Paesi europei, che deriva proprio dall’allontanamento dalla propria comunità di riferimento. Una ricerca condotta sugli adulti italiani tra i 50 e i 90 anni, mostra che circa il 35% degli intervistati presenta i sintomi della depressione.

Per gli anziani come per i più giovani, la solitudine è il risultato di fattori strutturali e culturali: l’isolamento sociale, dovuto alla mancanza di occupazione o alla situazione abitativa, uno scarso senso di appartenenza e il non aver nessuno con cui confidarsi o su cui poter fare affidamento, ma anche l’incertezza verso il futuro e le relazioni in sé.

Le aspettative del mondo degli adulti e la paura del fallimento bussano alla porta della Gen Z, mentre la guerra e il cambiamento climatico fanno da sfondo, creando un’emergenza di salute mentale per i giovanissimi e un’occasione di guadagno imperdibile per i fuffaguru della crescita personale.

I social media avrebbero dovuto facilitare la comunicazione, creare comunità, rendere più efficienti le nostre interazioni, invece alimentano la depressione e l’ansia, soprattutto tra i più giovani. Non solo, generano un meccanismo di ricerca dell’approvazione altrui che ci rende tutti sempre più consapevoli di noi stessi, più paurosi di sbagliare, di essere “cringe”. Allo stesso tempo, il discorso online tenta di mascherare la solitudine per estrema indipendenza, usando il linguaggio della terapia per diffondere nuovi mantra -come “protect your peace”- che giustificano la mancanza di un sistema sociale di supporto, normalizzando l’isolamento sociale.
La solitudine che sentiamo è riflessa anche nel modo in cui pianifichiamo le nostre città.

Secondo l’architetto Jan Gehl, le città moderne non sono fatte a misura d’uomo, al contrario impoveriscono le nostre vite, perché pensate per facilitare il traffico delle auto. Anche in Italia, le piazze si stanno svuotando: incidendo non solo sul modo in cui facciamo aggregazione, più legato alle dinamiche di consumo, ma anche sulla partecipazione politica. Mentre i luoghi pubblici si restringono, i rituali collettivi si immiseriscono, le pratiche associative vengono sostituite dai contributi individuali o criminalizzate, si fa spazio una nuova idea di città policentrica e di politica disintermediata, che inevitabilmente influenza il nostro senso di comunità.

Così, il modo in cui abitiamo, consumiamo, navighiamo sui social media ed esprimiamo dissenso è fatto sempre più a misura di individuo, di unità singola e sola, di isola.

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