
Letteratura
L’isola dei gatti
A cura di
Pierfrancesco Quarta
Immagine di
Redazione Ratpark
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L’isola è una scelta di vita. Il battito caparbio dell’onda incarna l’anelito dell’uomo a restare aggrappato a una qualunque terra emersa. Per quanto remota, isolata, inamovibile essa sia.
Per raggiungerla occorre una barca, un traghetto, o, come minimo, un ponte bello lungo. Un’isola è tutto e basta sempre a sé stessa, perché è così che deve essere.
La mia vacanza in Grecia fu un misero puntino nel quadrante degli eventi, miei e della mia fidanzata. Cos’è, in fondo, una settimana in un anno, se non un’isola?
La settimana era iniziata bene, con un pranzo informale insieme allo zio di lei, Dimitris, subito dopo l’atterraggio. Prima di arrivare al ristorante, il ricco armatore ci decantò la bellezza delle isole greche, e soprattutto della sua preferita: Elafonisos. Durante il pranzo, Dimitris ci tenne un lungo discorso sul matrimonio, che, lì per lì, io la mia futura moglie non cogliemmo. Stava divorziando dalla sua terza moglie ed attribuimmo l’invettiva a quel motivo lì. Poi ci accompagnò al noleggio d’auto e ci spiegò che i suoi affari lo avrebbero trattenuto ad Atene, nonostante i suoi piani di raggiungerci nel fine settimana.
Da lì non fu del tutto facile raggiungere Elafonisos in macchina. Ma il tragitto in mare fu breve e il panorama dai finestrini stupendo; e soprattutto, i giorni seguenti ripagarono la lunghezza del viaggio.
L’isola di Elafonisos si presentava paradisiaca. Un piccolo paese di pescatori con qualche ristorantino e qualche negozietto di souvenir era tutto ciò che accoglieva i visitatori che scendevano dal traghetto. Tutt’intorno, sparsi, molti gatti sonnecchiavano nell’attesa che qualcuno si degnasse di pranzare, bagnandosi nel frattempo dei raggi del sole. Attendevano a ogni ora che i tavolini del porto si riempissero, per poter pietire o rubare pochi scarti di pesce. Il paesino, in breve, sembrava loro.
Il porto è piccolo e con poche barche, ma la chiesa, situata su un pezzetto di terra collegata da un ponticello di legno bianco, lo rende molto caratteristico. Se visitata da vicino, dà l’idea di rumorose feste di paese, precluse agli occhi dei visitatori estivi.
La spiaggia di Simos, che, invece, visitammo più volte durante la nostra vacanza, è la meta più gettonata, perché è fra le più belle che il Peloponneso abbia da offrire. L’alloggio lussuoso, infine, era costato una miseria, dato che, molto oculatamente, Dimitris ci aveva pagato il volo durante la bassa stagione. – È un peccato che abbia dovuto rinunciare ad accompagnarci. Ci avrebbe offerto sicuramente dei bei pranzi di pesce. – diceva la mia fidanzata, di origine greca, e che in quanto tale pensava solo a mangiare. A Siena, dove abitavamo, non c’era un ristorante greco all’altezza, a suo dire.
Maggio è il periodo ideale per godersi la vita e non pensare ai doveri. Capita raramente nella vita, ma in quelle piccole occasioni scopriamo di poter essere grati anche all’invito di un completo estraneo. Lo zio della mia futura moglie lo avrò visto sì e no tante volte quante sono le dita della mia mano; forse una volta in più o una in meno. Ma, chi sa perché, sempre a sontuosi incontri di famiglia. Qualche battesimo, un matrimonio (proprio il suo, attualmente in crisi) e qualche festa comandata.
Quello che è sicuro è che le nostre famiglie, al nostro ritorno, si aspettavano che saremmo stati sposati. Ci sembrava sempre di essere mal visti da entrambe le parti, perché io ‘sarei’ cattolico e lei mormona. La sua famiglia era tornata a vivere in Grecia dallo Utah dopo un’intera generazione e suo zio era diventato ricco facendo l’armatore, una volta rientrato in patria, per il suo rispettivo zio.
In realtà a nessuno dei due fregava molto della religione. Le avevo messo un anello al dito senza pensare troppo alle conseguenze. Ma da lì in poi i rapporti con le nostre rispettive famiglie si erano raffreddati. A dirla tutta non ci importava neanche di affrettare le nozze, ma questo a loro non interessava. Pensavano solo a metterci i bastoni fra le ruote e sospettavano il peggio senza sapere cosa ne pensassimo. Come noi non sapevamo che cosa loro ci avessero preparato.
Un matrimonio è troppo dispendioso, pensavamo: meglio un’isola e una vacanza solo per noi due. Anche in quel caso non pensammo alle conseguenze: come della religione, anche di quelle non ci importava un granché.
Su un’isola, d’altronde, non ti deve importare di nulla. Più ti affezioni a qualcosa, più ti manca quando ne finiscono le scorte. Può capitare, infatti, che, quando c’è brutto tempo, le navi non riescano ad attraccare. Di conseguenza, i venditori possono restare senza rifornimenti.
Fortunatamente, su un’isola così vicina alla costa il rischio è basso. Ma una volta, su un isolotto ameno al largo di Cuba, capitò che nell’hotel nel quale alloggiavo insieme a mio fratello prima del fidanzamento, finì la birra. Così ne restammo entrambi molto delusi. Ci piaceva stare ore e ore in piscina a bere birra senza far niente. È una cosa che da buon “continentale” – come mi definì una volta un coetaneo sardo – associo naturalmente alle isole.
– Il sardo, secondo te, è così diverso dagli altri dialetti perché si è evoluto in modo… isolato? – chiese la mia fidanzata una sera a cena. Quel tipo di umorismo che non faceva ridere nessuno era tipico di tutta la sua famiglia.
– Be’, effettivamente, hanno avuto pochi contatti con le altre popolazioni della terraferma – risposi io seriamente – per diversi secoli. Ci sta che abbiano deviato tanto dalla lingua latina per…
– …Uffa! Sempre con questi spiegoni che non ti ha chiesto nessuno… Dai che arriva il dentice! Guarda com’è bello!
Non so se per i mormoni abbia senso il concetto di regione storica, dato che credono che la Bibbia si svolga normalmente, con Gesù in croce e tutto il resto, ma in America. Perciò, decisi di non portare avanti la questione.
– La cucina greca è troppo meglio di quella italiana, – continuò lei mentre il pesce veniva posato in tavola. Avevamo ordinato un grosso dentice nel ristorante dove andavamo di solito, chiedendo al ristoratore di tenercelo da parte fin dall’ora di pranzo. Così mi concentrai solo su quello. E sul vino.
– Sai, non dobbiamo sposarci per forza, quando torniamo a casa… Mi piace il tuo anello. Ma non c’è nessuna fretta, – disse lei, staccando le spine dal dentice con forchetta e coltello.
– Hai ragione. Servirebbe soltanto a farli incazzare di più, – risposi io, imitandola.
– Già, molto di più… – mi fece eco lei. – …Però! Il dentice! Hai sentito che buono?
– Mmhh, proprio buono! – esclamai io a mia volta, ansioso come lei di cambiare discorso. – E anche il vino non è male.
– Mah, quello insomma… però scende bene, quindi ne ordineremo di sicuro un altro quarto.
Io scoppiai a ridere: – Di questo passo domani a Simos suderemo di brutto!
Lei rise con me.
Visitammo la spiaggia di Simos ogni giorno. Ci stavamo sempre un sacco di tempo, senza pensare a niente. Io feci persino il bagno, nonostante l’acqua ghiacciata di maggio, tanto era calda l’aria. Un giorno, posai gli occhi, quasi per caso, sul libro che lei stava leggendo, mentre mi asciugavo al sole. Il cielo era un po’ grigio, anche se fino ad allora il tempo era stato eccezionale.
– Che cosa leggi? – chiesi io, con le parole crociate in mano, ma senza la penna, dimenticata in camera.
– Murakami, – mi rispose.
– Ancora?
Lei mi fulminò con lo sguardo. – Sì, perché in Italia lo leggevo solo quando eravamo a casa da te. – rispose con tono astioso, come se, con quelle parole, avessi pronunciato su di lei un giudizio di valore.
– Non intendevo quello, amore… A che racconto sei arrivata? – Lei non mi rispose e continuò a leggere. – E va bene, fai leggere anche me, dai – dissi io, mentre mi stendevo sul poco spazio rimasto del suo asciugamano. – Guarda, sta pure tornando il sole! Fammi anche tu, un bel sorriso, – la carezzai. Di nuovo lei non rispose, immersa com’era nella sua lettura.
Il rumore del mare accompagnava i nostri istanti, ininterrotto. Hanalei Bay, lessi io in cima ad una delle pagine. Il racconto era già cominciato, ma la signora di cui parlava mi stava troppo simpatica. Così mi ci affezionai e finii per leggere quasi tutta la storia abbracciato alla mia futura moglie, mentre lei si lamentava, credo giustamente, perché stava scomoda nella posizione in cui tentava di tenere il libro in mano.
– Quando lo finisci, me lo puoi prestare? – le chiesi io, dopo un po’, accaldato.
Dopo aver ottenuto un vero sì, oltre a un generico cenno del capo, fui libero di scrollarmi la calura, rituffandomi nell’acqua cristallina. Come un bambino che aspetta il permesso dalla madre dopo aver mangiato.
Qualche giorno dopo, durante un aperitivo sul porto, mi consegnò il libro. Iniziai subito a sfogliarlo, seduto ai tavolini del lungomare. Prima che potessi immergermi nella lettura, la mia fidanzata mi fermò, per chiedermi se avessi preferito bere, lì con lei, un altro giro al tramonto, oppure andare al ristorante di nostra fiducia. Io, lei e i gatti.
I gatti dell’isola erano, infatti, molto abitudinari, come noi, ed ognuno aveva il suo ristorante preferito. Sul porto, di taverne, ce n’erano cinque o sei. Ma ogni gatto frequentava sempre la stessa. E dopo ogni pasto faceva la lotta con gli altri compagni di osteria per ottenere più pesce avanzato possibile dai padroni del locale.
Noi avevamo imparato presto a riconoscere i nostri quattro amici di tavolo e dopo una settimana, ci dispiacque quasi separarcene, nonostante la loro invadenza a cena. Ce n’erano due neri, uno bianco a macchie rosse striate e uno grosso, senza un occhio e grigio. Quest’ultimo era pieno di segni di battaglia e a volte se ne aggiungeva uno timidissimo e dal pelo chiaro, tigrato e senza coda.
Dopo il secondo giro di aperitivo, dovetti, quindi, interrompere la lettura per andare a cena. Quella sera il gatto nero che sembrava il più importante, o quantomeno il più spavaldo della combriccola, provò a salire sul tavolo più di una volta. Dovetti scacciarlo con un forte applauso vicino al suo orecchio, ma non smise per questo di starmi simpatico. Un’altra sera riuscì persino ad artigliarmi un grosso pezzo di pane grigliato e a rubarmelo.
Quella sera, invece, dopo l’ultimo drink nella hall di un albergo, continuai la lettura del libro e mi appassionai alla prima storia, tanto che la lessi tutta, cosa che dopo una lunga e ricca giornata non ero solito fare. In quei frangenti mi bastavano poche pagine per crollare. Ma quel libro mi attirava e continuai. Alla fine, scoprii che il finale non portava a nulla. Ero forse convinto di trovare un romanzo. E invece sbattei il muso contro la dura realtà del racconto. Piccolo, isolato. Senza un perché.
Così l’ultimo giorno sulla spiaggia lo vissi con ansia perché avevo lasciato sul comodino il volume con Hanalei Bay.
Riuscii a leggerlo tutto soltanto quella sera e lo trovai il più bel racconto su un’isola che io avessi mai letto. Di bei romanzi e di bei film ambientati su un’isola se ne trovano a milioni. Ma di racconti mi veniva in mente solo quello, oltre alle storie che un mio amico ci raccontava alle elementari.
L’isola di Elafonisos si era fusa per me con quella di Kauai, nell’arcipelago hawaiiano.
Mi ci volle molto tempo per leggere l’intera raccolta. Più di un anno a dire il vero. Notai che anche io faticavo a finirlo, leggendolo solo a casa di lei. Ma al tempo lo infilai in valigia, pensando che tanto saremmo andati a convivere presto, per via del matrimonio.
La sera prima del volo, lo zio Dimitris, il noto armatore greco, ci invitò a cena da lui, nella sua villetta di Atene. Il suo cuoco privato ci cucinò una grigliata di carne impeccabile e il vino da noi scelto si abbinava perfettamente. Era una fortuna non sfigurare: quella bottiglia l’aveva scelta la mia fidanzata, che di vino quantomeno se ne intendeva.
– Che cos’è l’amore? – esordì Dimitris, dopo il primo calice. – I miei matrimoni si sono sempre rivelati uno scandalo. O tradivo io, o tradiva lei. Oppure ci annoiavamo a morte. Che è peggio. Che cosa ve ne fate, ora, voi, di un matrimonio? Vasilisa ti ha appena regalato una macchina. Sono spese da pagare; in Italia avete il bollo, oltre all’assicurazione e quant’altro. Vorrete accendere un mutuo quando andrete a vivere insieme. Avete fatto una vacanza durata più di una settimana. Che cosa potreste volere di più?
Noi stavamo zitti, mentre mangiavamo il pollo e il kebap con lo tzatziki, guardandolo bere. Avevamo paura di sapere dove stesse andando a parare.
– Accontentatevi di queste spese. Nella vita il denaro va e viene. Il trucco sta nel farne andare via il meno possibile, – disse, agguantando una coscia di pollo. – Non vi sposate. Non vi conviene. Fidatevi dello zio Dimitris. Ci sta passando proprio ora… Non c’entra niente quello che mi hanno detto di dirvi i vostri genitori.
Il volo di ritorno fu turbolento e nessuno di noi due aveva voglia di parlare. Ma soprattutto non avevamo voglia di scrivere ai nostri genitori dopo l’atterraggio, come eravamo soliti fare per rassicurarli. Quella volta avevamo l’impressione che avessero passato il segno. Ci era sembrato tutto un trabocchetto per convincerci a non sposarci. Il colmo era che lo avevano escogitato, mettendo in mezzo lo zio Dimitris come portatore del messaggio, senza che nemmeno sapessero che nessuno di noi due aveva voglia di sposarsi! Quello fu uno dei motivi del nostro isolamento dalle rispettive famiglie. Tuttora io non sento più mio padre, mentre lei non sente sua madre. Non solo non volevano vederci felici. Ma non sapevano neanche cosa ci frullasse nella la testa.
Rimettemmo via le nostre valigie, frustrati, più che dal ritorno, dall’invadenza dei nostri familiari. Avevo solo voglia di riniziare a leggere Murakami. In quel momento non pensavo ad altro. Oltre che la mia isola, quel libro era il mio rifugio.
Alla fine, io e la mia fidanzata non ci sposammo. Né sull’isola, né in Italia, né mai. Però, una volta arrivato al quartultimo racconto, rileggendo Hanalei Bay, per me fu come ritornare lì, sull’isola con lei, a Elafonisos. Sulla spiaggia di Simos, con le parole crociate in mano.
E d’un tratto, fugacemente, mi sembrò di essere lì per davvero, e mi venne voglia di beffare senza scherzi le nostre famiglie, sposandoci seriamente, a loro insaputa, sull’isola dei gatti.