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Arte

Perché i musei non sono (solo) aziende

L’aumento del costo dei biglietti unito alla pubblicità sui social ci fa dimenticare il vero ruolo dei luoghi che conservano l’arte per il pubblico

A cura di

Lorenzo Calamandrei

Immagini di

Gallerie degli Uffizi (Instagram)


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Cos’è successo? Cerchiamo di partire dall’inizio. Prima della riforma attuata dal ministro Dario Franceschini nel 2014, i musei erano gestiti da un direttore, la cui autonomia era in parte limitata dall’attività di monitoraggio delle Soprintendenze, organi periferici di quello che oggi chiamiamo Ministero della cultura, ma che all’epoca si chiamava “Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo” (ossia Mibact, che poi è diventato brevemente Mibac tra 2018 e 2019, per tornare a essere Mibact nel 2019 e infine approdare al nome attuale nel 2021; cito questi cambiamenti continui di denominazione solo per dimostrare che è sempre più vero che “se vogliamo che tutto rimanga come è, è necessario che tutto cambi”).

La riforma Franceschini ha introdotto una serie di così detti “super-musei”, ossia musei con larghi margini di indipendenza rispetto alle Soprintendenze, i cui direttori sono designati tramite concorso valutato da una commissione appositamente creata dal Ministero. Musei di questo tipo sono, per citarne alcuni, gli Uffizi, la Pinacoteca di Brera, Capodimonte e altri tra i più importanti musei italiani. Per fare un esempio, se prima della riforma al direttore della Pinacoteca di Brera era consentito gestire il 30% delle entrate del museo, dopo la riforma questa percentuale sale al 70%.

Prossimamente, il mandato dei direttori di quattro di questi musei scadrà e sarà necessario nominarne di nuovi. A tal fine è stata creata dal ministero una commissione che ha suscitato diverse critiche nell’ambiente degli “addetti ai lavori”, fondamentalmente a causa della scarsa presenza di storici dell’arte. La risposta alla polemica da parte del Direttore generale dei musei, Massimo Osanna, è stata che “I musei come luoghi della cultura si configurano come piccole aziende. E quindi hanno bisogno di figure complesse con capacità anche manageriali per la direzione, unite alle competenze tecniche che da sole non bastano”. Ossia, per scegliere il direttore di un museo, le qualifiche storico-artistiche non sono importanti quanto la preparazione economico-aziendale.

Di fronte a una risposta del genere da parte di una delle figure più importanti del ministero, ci chiediamo: “I musei sono (solo) piccole aziende?”. Questo interrogativo è stato a lungo protagonista del dibattito museologico italiano, a partire da quando ci si è resi conto che il patrimonio poteva costituire un’importate fonte di guadagno.

La questione risulta complessa e non è facile definire i casi in cui nell’economia della cultura prevale l’economia sulla cultura. Sottile è la linea che distingue la coscienza del valore economico del patrimonio, dallo sfruttamento di esso a fine monetario. Secondo la definizione Icom (International Council of Museums), il museo è un istituto non a scopo di lucro, ma è indubbio il ruolo che i musei, e il patrimonio in generale, hanno nella nostra economia. La risposta di Osanna mostra chiaramente quale sia la posizione del ministero in merito, posizione analoga, peraltro, a quella dei vari ministri precedenti.

La deriva che ha preso la gestione del patrimonio in Italia negli anni è chiara a tutti coloro che notano l’aumento dei prezzi dei biglietti dei musei, la sponsorizzazione di questi ultimi da parte di influencer, l’utilizzo di parchi archeologici come sale da concerto per dj di fama internazionale (mi riferisco ai ripetuti e discutibili concerti di Martin Garrix nel Parco Archeologico di Selinunte) e via dicendo.

La domanda da porsi è: cosa vogliamo? Un’azienda che metta a frutto il patrimonio, arricchendo lo Stato ma paradossalmente non le persone che lavorano in tale azienda (numerose sono le lamentele degli operatori museali sull’indecenza del proprio salario)? Oppure vogliamo un ente che usa questo incredibile patrimonio per far scoprire al pubblico una cultura, delle idee, un senso critico, degli strumenti per capire il mondo che ci ha preceduto e dunque quello presente?

Perché esiste un museo? Come nasce? Nasce dall’apertura al pubblico delle gallerie private nel Settecento, per democratizzare la cultura e rendere il popolo partecipe di essa. Questo per evitare che un’élite intellettuale conservi tutto il sapere. Nasce per raccontarci il nostro passato, per tutelarlo e tramandarlo. È evidente che tale ente debba essere gestito da qualcuno. Ben vengano i manager, ma manager che capiscano il vero significato del museo e che non vedano il patrimonio solo come potenziali introiti.

Tornando alle nomine dei direttori, una questione che mi sta particolarmente a cuore, in quanto fiorentino, è la nomina del nuovo direttore degli Uffizi. Attualmente, diversi aspetti della gestione degli Uffizi sono sconcertanti. Perché il biglietto degli Uffizi costa 25€? Se il patrimonio di Firenze è patrimonio dell’umanità, perché questa divisione tra chi può permettersi la cultura e chi no? Certo non sono ingenuo, il museo ha dei costi. Ma è anche vero che il museo ha fondi statali, regionali, comunali e donazioni da parte di enti pubblici e privati.

Inoltre, tutte queste entrate dovrebbero essere reinvestite dal museo in attività di valorizzazione del patrimonio efficaci, che contribuiscano veramente allo sviluppo della cultura di tutti i cittadini. Purtroppo, non è così e l’unico investimento significativo che il museo sembra aver fatto è stato quello di assumere i migliori social media manager. “Migliori” si intende al fine di raccogliere più follower possibili, perché di certo non sono i “migliori” al fine di veicolare contenuti culturali.

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A vedere il profilo TikTok degli Uffizi non posso fare altro che provare vergogna e rabbia. Perché Eike Schmidt non prova vergogna a vedere le opere del suo museo ridotte unicamente a meme? Come mai gli Uffizi, invece di occuparsi di TikTok, non vanno nelle scuole? Perché non vanno nelle periferie? Perché si accontentano di un pubblico di soli turisti o al massimo di una ristretta élite borghese fiorentina? E perché si accontentano che questo pubblico non si arricchisca di cultura e conoscenza, ma solo di un numero spropositato di selfie davanti alla Venere di Botticelli?

È veramente scoraggiante vedere come tutto in Italia sia destinato a essere votato unicamente alla gentrificazione e alla totale svendita, per dei soldi che poi non sappiamo nemmeno come investire.

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