
Politica e società
Ogni carcere è Alcatraz
In Italia isolamento, abbandono e privazione di diritti.
Tratto dalla rivista N.09
A cura di
Virginia Lenzi e Alessia D’Aniello
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Che cos’è un’isola? Se cerchiamo sul vocabolario questa parola, uno dei significati che compare è: “territorio che si distingue dalle regioni circostanti per caratteri peculiari”.
Se pensiamo a un luogo isolato, diverso dagli altri, che non porta però alla mente il mare, ma abbandono, solitudine, invisibilità. Uno spazio fisicamente e simbolicamente separato dalla società. A volte un’isola a tutti gli effetti, come la leggendaria Alcatraz di San Francisco. Ecco che arriviamo al carcere.
Uno spazio chiuso, lontano, invisibile, dimenticato dalle politiche pubbliche, diventa non un luogo di recupero, ma un contenitore di ciò che la società non riesce o non vuole affrontare: povertà, disagio, dipendenze e patologie psichiatriche.
Ogni carcere è un’isola, perché è lontano da noi, perché anche quando ci passiamo vicino, possiamo vederlo soltanto da fuori. È diviso, è separato, perché alcune persone hanno scelto di rompere il cosiddetto “patto sociale”. Nella narrazione quotidiana i “cattivi” finiscono dentro, mentre i “buoni” restano fuori. Pensiamo che sia giusto dividere e, invece, bisognerebbe cominciare ad unire.
Questo senso di abbandono e di isolamento è evidente nel XX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, che dal 1991 si occupa di difendere i diritti e mantenere le garanzie nel sistema penale e penitenziario italiano.
Antigone ha chiamato questo suo ultimo rapporto “Nodo alla gola”, con l’intenzione che tale titolo “sia un pugno nello stomaco per un’opinione pubblica troppo distratta rispetto alle condizioni di vita nelle carceri italiane e ai troppi morti che siamo costretti a contare”.
Il rapporto segnala in modo lucido e drammatico problemi cronici e gravi delle carceri italiane: sovraffollamento, suicidi, carenze strutturali. A fine marzo 2024, le carceri del nostro Paese ospitavano 61.049 persone, contro una capienza ufficiale consentita di 51.178 posti. Celle sovraffollate, spazi comuni insufficienti, convivenze forzate. In alcune strutture, il tasso di affollamento ha superato il 200%, come a Brescia Canton Monbello e Lodi.
Questo sovraffollamento crescente non è dovuto all’aumento della criminalità, che è invece in calo, ma da fattori quali l’inasprimento delle pene negli ultimi anni, la minore concessione di misure alternative alla detenzione e l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Il carcere, quindi, diventa la soluzione anche a situazioni non sempre gravi e pericolose, e altresì uno strumento politico per ottenere consensi ai danni di persone private della propria libertà personale.
L’aspetto forse più drammatico è rappresentato dai suicidi. Tra inizio gennaio e metà aprile del 2024 ne sono stati accertati 30, uno ogni 3 giorni e mezzo. A uccidere sono l’isolamento, la mancanza di assistenza psicologica e di personale formato, la fatiscenza delle strutture e le condizioni di vita disumane e degradanti (evidenziate già nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella storica sentenza “Torreggiani”). Come viene affermato nel Rapporto di Antigone “una persona che viene privata della sua identità, della sua storia e della sua dignità, faticosamente può dirsi una persona in vita”. Sono tante le storie di persone morte suicide che sarebbero dovute uscire dal carcere da lì a poco.
Un’altra situazione critica è quella delle madri detenute. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, attualmente 15 donne vivono in carcere con i propri figli, tra Istituti a Custodia Attenuata per Madri (ICAM) e sezioni nido degli istituti penitenziari ordinari. Bisogna poi sottolineare la presenza di donne incinte e la difficile convivenza tra gravidanza e detenzione. Nonostante la delicatezza di questa condizione, il Governo ha recentemente abolito l’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per quelle con figli di età inferiore a un anno. La misura è stata motivata dalla necessità di contrastare presunti abusi della tutela per eludere il carcere, ma è stata considerata da giuristi e associazioni in contrasto con i diritti fondamentali di madri e bambini.
Un luogo dove si ritrovano isolate anche persone con storie di tossicodipendenza (a fine 2023 erano il 29% della popolazione detenuta) che il sistema penitenziario non supporta, lascia sole e colpevolizza, quando il problema è in realtà sanitario, e andrebbe gestito con le misure adeguate.
A rendere tutto più difficile è anche la carenza sistemica di personale penitenziario, amministrativo e sociosanitario, e ciò non compromette meramente la sicurezza, ma anche quello che dovrebbe essere lo scopo rieducativo del carcere. La previsione costituzionale della pena come strumento di rieducazione e reinserimento sociale si scontra, quindi, con un sistema carcerario italiano che non riesce a favorire un’effettiva finalità riabilitativa e offrire opportunità e risposte a chi è rinchiuso.
Questo si ripercuote anche sulle capacità dello Stato di prevenire la recidiva quando è noto che il tasso di recidiva si abbassa drasticamente laddove il detenuto ha avuto opportunità di inserimento professionale. Bisognerebbe incrementare non solo gli agenti di polizia penitenziaria, ma soprattutto il numero dei funzionari giuridico-pedagogici; e intervenire in modo strutturale sul carcere per migliorare anzitutto le condizioni di vita dei suoi abitanti, introducendo ad esempio programmi di supporto socio psicologico, e soluzioni alternative alla detenzione che siano effettive e che permetterebbero di ricorrere alla pena detentiva solo come ultima ratio. Servirebbero ponti tra dentro e fuori e non nuove isole.
Dall’esperienza di Alessia D’Aniello, volontaria in carcere, è possibile conoscere frammenti di vita del carcere: “Sono anni che entro in queste isole come volontaria, in questi posti dove c’è sofferenza, rabbia e dolore. Vi sorprenderà sapere che ci vivono un sacco di abitanti diversi. C’è chi si è sporcato le mani di sangue, ma c’è anche chi la solitudine se la portava dentro al punto di diventare egli stesso un’isola, rifugiandosi nella dipendenza dalle sostanze stupefacenti”.
Le persone negli istituti di pena, una volta arrivate, vengono differenziate, a seconda della categoria di appartenenza, ad esempio i “nuovi giunti”, sono quelli che fanno per la prima volta ingresso in carcere; i “protetti”, sono collaboratori di giustizia, omosessuali, quelli che hanno commesso reati a sfondo sessuale, ecc.; nelle articolazioni per la tutela della salute mentale invece ci sono i detenuti affetti da malattia mentale. Divisioni ed etichette, per esigenze di organizzazione penitenziaria, ma che in qualche modo definiscono anche la persona ristretta.
L’ordinamento penitenziario poi prevede per ragioni sanitarie, disciplinari o cautelari l’isolamento, che consiste nella separazione di un detenuto dal resto della popolazione carceraria per un determinato periodo di tempo. E così ogni ristretto diventa per davvero un’isola e qui impara l’attesa. Aspetta che qualcuno gli apra la porta della cella, che qualcuno gli porti il pasto, che lo accompagni a fare un colloquio, una telefonata, l’ora d’aria; o attende di andare in ospedale, posto che ci sia qualcuno, altrimenti anche la chemioterapia salta. Sono tanti i detenuti che ogni giorno non riescono ad eseguire visite mediche programmate in ospedale, da mesi, per mancanza di personale del “nucleo di traduzione” la polizia penitenziaria che si occupa di trasferimenti.
“In carcere sono riuscita ad abbattere le mura del pregiudizio. Ho trovato luce e gentilezza nel posto più oscuro della società. Mi sono sentita sempre accolta e ho lasciato che ogni preconcetto venisse abbattuto nell’incontro umano”, continua Alessia nella sua testimonianza. I volontari, così come previsto dall’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario giocano un ruolo cruciale, perché dedicano il proprio tempo ai dimenticati, agli ultimi, facendo da ponte con il resto della società, ma non basta. È necessario che la società esterna sia pronta ad accogliere chi ha sbagliato, a partire dagli imprenditori che potrebbero ottenere numerosi vantaggi fiscali assumendo detenuti (così come previsto dalla Legge n. 193/00 “Smuraglia”).
Le attività di volontariato che si svolgono nei penitenziari non solo consentono di fornire un aiuto a chi ne ha bisogno, ma costituiscono un momento di crescita personale, professionale ed umano. Spesso anche solo organizzare un pranzo natalizio o pasquale con i ristretti riesce ad essere un atto rivoluzionario: “Ho partecipato a un pranzo nelle festività pasquali con i detenuti condannati all’ergastolo, che prima si trovavano in regime di 41-bis. Storie di uomini di mafia e di ‘ndrangheta, di persone che vivono in una cella ininterrottamente da trent’anni. Contrariamente all’immaginario comune e collettivo, sono tanti gli uomini che dopo trent’anni oggi sono diversi, perché hanno trovato un loro modo di stare al mondo, di sopravvivere per continuare a esistere. Ho conosciuto ergastolani che si sono iscritti all’università e la mattina la passano a studiare, a prepararsi per l’esame, anche con un po’ di agitazione per doverlo superare.
C’è chi invece si mantiene in vita dipingendo tele, utilizzando i colori, l’arte e la pittura come mezzo per dare un senso al tempo che inesorabilmente scorre. E ancora poesie, racconti, riflessioni di chi vive la solitudine e che prova gratitudine nell’incontrare una persona esterna, nel mostrare con orgoglio la nuova versione di se stesso”. E, ancora, racconta Alessia: “Una volta ho pensato di realizzare la scatola della gentilezza per i detenuti con malattia mentale. All’interno c’erano diversi biglietti, ognuno dei quali conteneva un gesto gentile da compiere nei confronti di un compagno. Le parole “abbraccio”, “scusa”, “perdono”, “ti voglio bene” hanno riempito uno spazio di indifferenza. C’è chi ha chiarito a seguito di un disguido e chi invece ha manifestato la propria gratitudine a chi gli è stato accanto in un momento difficile, generando un momento di commozione che ha coinvolto tutti i presenti”.
Nessun uomo può restare per sempre isola. È forse arrivato il momento di abbattere le distanze per poter costruire una società in cui le persone non vengono escluse e abbandonate, ma incluse e ravvicinate.