
Musica
Il cantautore dimenticato
Townes Van Zandt attraversa la storia americana in punta di piedi, fino ad arrivare a un piccolo festival in Lombardia
A cura di
Francesco Bacci
Immagine di
Redazione RatPark
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Figino Serenza è un piccolo Comune brianzolo abitato da circa cinquemila persone. Come molti borghi italiani di analoghe dimensioni, trova le sue origini in età medievale (negli Statuti delle acque e delle strade del Contado di Milano fatti nel 1346 compare ‘el locho da Figino’). In epoca moderna galleggia tra la dominazione asburgica e quella francese; si annette al Regno sabaudo nel 1859 con il resto della Lombardia e, in seguito, al Regno d’Italia. Dando una rapida occhiata alla pagina di Wikipedia dedicata si scopre che la principale festa di paese è il cosiddetto ‘Rogo della Giubiana’: folkloristica rievocazione di un evento avvenuto probabilmente nel XII secolo nei dintorni di Cantù, in cui una traditrice milanese andò incontro a una violenta morte. Carino no?
Le cose non stanno esattamente così. Appurate le questioni di cui sopra, è necessario rendersi conto che a Figino Serenza l’evento dell’anno è un altro: il Townes Van Zandt Festival.
Beh, certo, è perfettamente normale che anche un piccolo borgo lombardo dedichi una festa annuale a uno dei più grandi cantautori della storia americana.
Sì… ma chi diavolo è Townes Van Zandt?
Personalmente, non avevo mai sentito nominare il protagonista di questo breve racconto finché non mi sono chiesto chi fosse l’autore della splendida canzone che chiudeva la penultima puntata della prima stagione di True Detective (2014).
Primo piano del serial killer che scende dal trattore tagliaerba.
Inquadratura che si allarga sempre di più fino a mostrare una panoramica delle paludi della Louisiana al tramonto.
In sottofondo, una chitarra acustica arpeggiata e strappata trasporta sapore di ruggine in bocca all’ascoltatore, prima che una voce calda come la sabbia del deserto avvolga i suoi timpani smaniosi di melodia:
Won't you lend your lungs to me? Mine are collapsing
Plant my feet and bitterly breathe up the time that's passing…
La canzone in questione si intitola Lungs ed è contenuta in un album leggendario, omonimo, del 1969. Il nostro protagonista riuscì a incidere non solo i propri pensieri, musicati, su un vinile letteralmente epico, ma anche il proprio nome sulle tavole della legge del cantautorato internazionale.
Dopo poche ore di approfondimento, la sentenza: “e fissa sia!”
Ormai Van Zandt, nella mia testa, non ha niente da invidiare a un Bob Dylan o a un Fabrizio De André. Il confronto regge sia sul lato delle capacità compositive che su quello delle liriche. Inoltre, Townes, non ha avuto di certo una vita meno travagliata di quella del classico cantautore anni ’60. Sfiga vuole che abbia avuto semplicemente meno successo dei sopracitati. In realtà, nell’agglomerato di stati a stelle e strisce è tuttora una figura di culto. La sua idiosincrasia per le luci della ribalta ha affascinato posteri e contemporanei. Townes, infatti, fu molto amato tra i colleghi: da Dylan a Willie Nelson, da Robert Plant ai Meat Puppets, molti artisti reinterpretarono i suoi brani storici.
Il suo stile è una scacchiera di suoni: tre torri bianche (tex mex, country, folk) e un re nero (il blues). Fu splendido nell’arte dello storytelling. Il palco era forse l’unico luogo dove trovava calore e lucidità. Lontano dal palco era solo droga, incapace di controllarsi: una volta si iniettò una dose di eroina davanti al figlio di otto anni […].
(M. Cotto, Il grande libro del rock (e non solo), Milano, Rizzoli, 2011).
Il mito dei vagabondi e della strada lo attirava. Trascorse gran parte della sua vita girovagando, scrivendo canzoni come Pancho and Lefty, definita da J. Reid nel suo libro The Improbable Rise of Redneck Rock: “La miglior trasposizione nella musica americana del mito dei gringos che cercano fortuna ma trovano la loro rovina in Messico”.
Si sa, la musica è questione di gusti. Tanto è inutile che qualcuno vi racconti perché Townes Van Zandt è stato uno dei migliori cantautori di sempre, l’unico modo per convincere voi stessi è provare ad ascoltarlo. La sua profondità nella scrittura, la sua capacità di trasmettere il suo disagio interiore e di restituire in musica le immagini di un’America così lontana nel tempo vi cattureranno. È grazie a un promoter di nome Carlo Carlini, scomparso nel 2011, che in Italia è sorto uno zoccolo duro di fan legati ai nomi di Guy Clark, John Prine, Joe Ely e altri grandi cantautori americani, tra i quali Townes. Da quindici anni cantautori da USA, Canada, Regno Unito, Francia, Svezia, Norvegia, Australia e ovviamente Italia si riuniscono per una grande maratona musicale al Townes Van Zandt Festival a Figino Serenza. Tutto nel nome del grande cantautore nascosto, lo Sugar Man di Fort Worth.
Se pensate di non averlo mai sentito, riguardatevi la scena finale de Il grande Lebowski.