
Arte
Sottovenere Festival: cultura indipendente in provincia
L’intervista ai giovani organizzatori del festival che anima Coreglia, tra teatro, poesia e la scelta politica di restare fuori dai circuiti urbani.
A cura di
Lorenzo Marsicola
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Silvia, Liviana, Andrea e Alessandro si sono conosciuti a Roma, durante gli anni di scuola teatrale. È lì che è nata un’amicizia solida, e con essa il desiderio di fare qualcosa insieme, al di fuori dell’ambiente scolastico.

«Volevamo distaccarci dalla struttura, creare uno spazio nostro, libero — racconta Silvia — così abbiamo iniziato a organizzare spettacoli da soli, nel tempo libero dopo le lezioni.»
Ma Roma, con tutta la sua offerta culturale, si è rivelata una piazza difficile. Gli spazi sono pochi, la competizione è tanta. «Roma ti dà tantissimo a livello di formazione — spiega Liviana — ma per chi lavora da indipendente e autofinanziato, mettere in scena uno spettacolo può richiedere anni.»
Da qui l’idea di guardarsi attorno. La svolta è arrivata con Coreglia, un piccolo comune in provincia di Lucca, paese natale di Andrea. Un luogo inaspettato dove tutto è sembrato possibile.
«Coreglia ci ha dato quella disponibilità che cercavamo. Lì abbiamo pensato: perché non creare un festival?»
È così che nasce il collettivo, formalizzato come associazione di promozione sociale. E con esso, Sotto Venere, un festival indipendente dedicato a teatro, cinema, musica e arti visive. La prima edizione, una sorta di “prova generale”, è stata fatta l’anno scorso in forma più spontanea. Quest’anno, invece, si parte con la versione ufficiale: il festival si terrà tra il 27 e il 29 giugno e il 5 e 6 luglio, su due weekend consecutivi, in armonia con i ritmi del luogo.
«Abbiamo voluto pensare a un formato che rispetti lo stile di vita della provincia — spiega Andrea —. Durante la settimana si lavora, ma il fine settimana può diventare un’occasione di incontro e cultura.»
L’obiettivo è chiaro: portare arte dove spesso non arriva, creare movimento in luoghi apparentemente periferici, e farlo coinvolgendo artisti da tutta Italia, non solo da Roma.
Il cuore di Sotto Venere è la multidisciplinarità. Teatro, musica, fotografia, arti visive: il collettivo ha sempre lavorato intrecciando linguaggi diversi, un’attitudine nata fin dai primi esperimenti romani.
«Abbiamo sempre avuto questa natura ibrida — racconta Liviana — ma metterla in pratica senza fondi è complicato. L’anno scorso siamo riusciti ad accorpare due compagnie, qualche esposizione. Quest’anno abbiamo voluto allargare ancora di più lo spettro, ascoltando i bisogni degli artisti, cercando di accogliere il maggior numero di discipline possibili.»
Il nome del festival — Sotto Venere — arriva da una suggestione astronomica. Venere è il secondo pianeta del sistema solare, ma il nome è rimasto aperto, sospeso, come un contenitore di significati.
«Venere ha un moto di rivoluzione particolare — spiega Silvia — crea una sorta di disegno a stella nello spazio. È una metafora perfetta per quello che vogliamo fare: lasciare una traccia, un centro, un cuore. E poi, atterrare su un altro pianeta: fare arte in provincia è un atto di atterraggio, di attraversamento, quasi alieno.»
Uno degli aspetti più belli, dicono, è osservare le reazioni delle persone del posto. «C’è un video in cui intervistiamo gli abitanti, stile RAI anni ’90. È esilarante — racconta Andrea ridendo — ci sono persone che all’inizio non capiscono cosa stiamo facendo, ma poi si divertono e partecipano. E gli artisti stessi si ricordano che il nostro mondo non è fatto solo di aperitivi e gallerie blasonate.»
Il rapporto con il territorio è centrale. Non si tratta solo di “portare cultura” dall’esterno, ma di costruire ponti veri, coinvolgendo chi abita quei luoghi. «Durante la prima edizione abbiamo lavorato con una ragazza del posto — racconta ancora Andrea — ha letto delle poesie durante uno spettacolo. Ci interessa creare comunità, non restare chiusi nel nostro circolo.»
Eppure, non è semplice. Lavorare come artisti e organizzatori, autofinanziati, in un contesto lontano dai grandi centri, richiede un’energia enorme. A volte significa fare anche i conti con una certa resistenza: istituzioni che faticano a capire, fondi che non arrivano, pregiudizi che rallentano.
«Spesso non capiscono cosa sia un festival indipendente, o cosa sia l’arte contemporanea. Ma poi, se riesci a farli entrare, si divertono, si affezionano, tornano.»
Il discorso si sposta inevitabilmente sul senso del fare arte oggi. Per loro, Sotto Venere non è solo un festival: è una presa di posizione, quasi una dichiarazione politica. L’arte deve uscire dai circuiti chiusi, tornare accessibile, creare legami reali.
«In Italia esiste ancora una legge che definisce il teatro come bene pubblico — ricorda Silvia — ma spesso l’ambiente artistico si è chiuso troppo in se stesso. Noi vogliamo riaprire, fare spazio, togliere l’arte dal piedistallo.»
Per questo gli spettacoli non sono pensati per un pubblico di addetti ai lavori. «Non facciamo cose elitiste o incomprensibili. Sono spettacoli belli, a volte anche tosti, ma sempre accessibili. L’anno scorso, ad esempio, uno parlava di politica e di televisione, con un personaggio che cambiava canale in continuazione. Avevamo paura che non lo capissero. Poi invece… è piaciuto moltissimo.»
Questa tensione tra contenuto e forma è uno dei nodi del collettivo. «Spesso nell’arte contemporanea si lavora più sulla forma che sulla sostanza. C’è quasi la moda del ricercato a tutti i costi — dice Andrea — ma che senso ha fare qualcosa che non ti parla, solo perché va di moda?»
Il tempo, nel loro racconto, è un’altra parola chiave. Non solo quello organizzativo, ma il tempo creativo, quello necessario a far maturare un’idea, una relazione, un progetto.
«Nella vita di città il teatro è spesso l’ultima cosa che fai. Corri tutto il giorno e poi, se ti avanza tempo, vai a vedere qualcosa. Ma così si perde la sacralità dell’evento. In un paese invece, con i suoi ritmi, puoi davvero dedicare tempo all’arte.»
Liviana racconta di un’esperienza in Svezia, in un piccolo centro dove l’amministrazione fornisce gratuitamente gli spazi agli artisti. «Era un coworking teatrale: io metto lo spazio, tu metti l’arte. È un modello bellissimo, che qui in Italia sembra ancora lontano.»
Tutti e quattro condividono lo stesso pensiero: l’arte dovrebbe essere un diritto, non un lusso. Ma oggi il lavoro artistico è spesso mal pagato o addirittura gratuito, specie per i giovani.
«Noi ci autofinanziamo, a volte ci sosteniamo con altri lavori, o con l’aiuto dei genitori — raccontano senza giri di parole —. È dura, soprattutto quando vedi che i fondi pubblici vanno sempre ai soliti circuiti.»
Eppure, nonostante tutto, continuano. Perché qualcosa succede. Le persone si affezionano, tornano, si emozionano. E questo, dicono, vale più di qualsiasi riconoscimento.
«A volte ti chiedi: per cosa lo faccio? Non certo per soldi. Ma se anche solo una persona si emoziona, allora tutto ha senso.»
Il festival è anche un invito a rallentare, ad ascoltare. A scegliere l’umano invece del prodotto. «Non vogliamo essere idoli o star. Vogliamo raccontare storie, incontrare persone, prenderci il tempo giusto.»

Andrea chiude il cerchio con una frase sentita da un anziano del suo paese: “Buttate il cuore oltre la montagna”. È un invito a rischiare, a partire anche quando non c’è una strada sicura.
E in fondo, Sotto Venere è proprio questo: un piccolo viaggio collettivo, un atto di fiducia, un moto di rivoluzione in direzione ostinata e contraria.