A cura di

Lara Gastaldi

Immagine di

Classixmagazine


☝🏻 Condividi se ti è piaciuto!

POV: Italia, 2008. Hai 16 anni, ti vesti solo di nero, ascolti musica che i tuoi compagni chiamano “casino” e odi tutto ciò che odora di “troppo commerciale”. Ti rifugi nei blog e forum online, scarichi musica da eMule, condividi frasi di Rimbaud su Netlog accompagnate da foto in bianco e nero con un makeup decisamente dramatic. Se sei un Millennial, sai benissimo di cosa parlo. All’epoca, chi cercava un’alternativa alla scena mainstream aveva due opzioni: diventare un detective digitale navigando tra vastissimi forum, oppure affidarsi a fanzine e riviste. C’erano le più note, come Metal Hammer e TrueMetal, e poi c’era RITUAL, l’iconica rivista per chi ricercava sonorità ed estetiche più oscure. Nata nel gennaio 2000 da una costola di Psycho!, :RITUAL: è stata la prima pubblicazione italiana incentrata sull’universo dark, goth, EBM e industrial, distribuita a livello nazionale.

Con le sue lucenti copertine patinate e le pagine in bianco e nero, :RITUAL: era molto più che una rivista: era un portale. Dentro ci trovavi interviste, recensioni, rubriche cinefile come :Terrorvision:, reportage fotografici dai festival (chi non ha mai sognato di partecipare al Gotik Wave Treffen?) e persino sondaggi per decretare il miglior artista dell’anno. C’era spazio per tutto: harsh-EBM, industrial, electro, neofolk, ambient, dark – a volte anche black metal. C’erano le compilation con un CD allegato (:Per:version:), e le fotogallery delle Lady in Black, con foto inviate dalle lettrici. La distribuzione era bimestrale, e questo la rendeva preziosa: trovare un numero di :RITUAL: era come pescare la tua Bibbia gotica tra le riviste di moto ed enigmistica.

:RITUAL: ha terminato le pubblicazioni nel 2012. Quindi se si volesse tornare a rivivere il mood di quelle pagine, l’unica soluzione sarebbe cercare su Web Archive. Un clic, ed è come riaprire il cassetto dove tenevi i bracciali borchiati e il poster di “Medusa” dei Clan of Xymox. Raccontare :RITUAL: oggi significa raccontare con malinconica nostalgia una scena che ha nutrito l’immaginario di una generazione e capire perché, a vent’anni di distanza, le stesse sonorità risuonano ancora tra le story di Instagram e i reel dei dark kids su TikTok. Ne parlo con il fondatore ed editor della rivista, Francesco “Fuzz” Pascoletti.

Dal 2000 al 2012, :RITUAL: è stata una delle poche voci autorevoli in grado di raccontare la scena alternativa in Italia. Ci racconti i dietro le quinte e com’è nata la rivista?

:RITUAL: nasce da una presa di posizione e da una consapevolezza maturata sul campo. Nella mia carriera ho diretto riviste fondate da altri e ne ho ideate di nuove; in entrambi i casi, il punto di partenza è sempre stato lo stesso: ero (e sono) il primo lettore, quindi il mio metro di giudizio coincideva con il mio gusto personale. Una rivista deve appassionare prima di tutto chi la fa, chi la dirige, chi scrive e chi la impagina – deve essere bella da vedere e interessante da leggere. Quando c’è passione vera, anche i progetti editoriali più difficili riescono meglio di quelli pensati solo per “fare il proprio lavoro”.

:RITUAL: è nata come naturale evoluzione della rivista che dirigevo al tempo, Psycho, un magazine di rock alternativo che esplorava sonorità più contemporanee come nu metal, crossover, metalcore, gothic metal – insomma, tutto ciò che si muoveva fuori dal recinto del metal più classico, che in quegli anni sembrava in stallo.

Le riviste specializzate continuavano a trattare questo genere musicale nello stesso modo da anni: recensioni uguali, interviste stanche, grafica identica. Con Psycho, adottammo invece un approccio radicalmente diverso. Parlavamo di generi che con il metal avevano poco a che fare, o che il pubblico metal tradizionale faticava ad accettare; Industrial, neofolk, ambient, dark ambient, tutti trovavano spazio in una rubrica che chiamammo “Le Pagine Oscure”, una sorta di ABC delle sonorità più dark. La linea editoriale era una proiezione di ciò che mi interessava, ma sempre con un filtro giornalistico: non era solo passione, era anche ricerca.

Se guardi a quel periodo, cosa pensi che avesse di irripetibile?

Intorno al 2000 mi resi conto che stava accadendo qualcosa; c’era un cambiamento nell’aria, una corrente nuova che attraversava anche l’Italia. Si stava sviluppando un fortissimo interesse verso il gothic metal: Moonspell, Tiamat, i primi Lacuna Coil, Rotting Christ, Samael, molte band che incorporavano anche elementi elettronici – altri, come i Theatre of Tragedy, cominciavano persino ad integrare l’EBM. Tra il ’98 e il 2000 il fenomeno esplose. Il pubblico iniziò ad avvicinarsi, spinto dalla curiosità verso generi nuovi: EBM, gothic, dark wave. Da subito mi fu chiaro che, più ancora che musicale, il richiamo era estetico.

Proprio come accadde ai tempi dei Kiss, l’attrazione per l’immagine, per una certa teatralità visiva, si trasformò in interesse per un intero universo sonoro. In quel contesto, il gothic appariva come una ventata d’aria fresca, soprattutto a confronto con una scena metal che cominciava a sembrare stagnante: i “vecchi capelloni” con borchie e giubbotti erano ormai l’ombra di sé stessi, mentre il mondo goth appariva figo, semplicemente. E, dettaglio tutt’altro che secondario per quei tempi, era anche una scena particolarmente partecipata dalle ragazze: artiste, fan, a differenza del metal classico.

La rivoluzione della scena goth era l’essere a tutti gli effetti alternativa: se non ne facevi parte, non potevi intercettarla: underground in senso pieno. Ma anche in questo caso, col tempo, si è iniziato a sentire il peso della ripetizione. La scena gothic si era costruita su pochi riferimenti solidi, e col tempo questi venivano reiterati fino alla nausea. Chi frequentava i club si ritrovava sempre gli stessi pezzi: The Mission, The Cure, Siouxsie and the Banshees, Joy Division, e a un certo punto si iniziò ad avvertire una certa stanchezza.

Ed è lì che ho visto un movimento speculare: mentre nel metal cresceva l’interesse per suoni più dark, nel goth si cominciava a guardare con curiosità verso il metal. Sembrava una battaglia, due fazioni opposte, ma in realtà era l’inizio di una nuova contaminazione; le due scene cominciarono a mescolarsi e a generare qualcosa di nuovo.

Tornando a :RITUAL:, in che modo hai costruito la sua identità visiva e contenutistica?

In quegli anni, percepivo una necessità di contaminazione tra i generi alternativi. Così iniziai a “fare campo”: frequentavo serate, andavo a concerti, parlavo con le persone, osservavo cosa stava accadendo anche a livello commerciale. Ma il mio obiettivo era chiaro fin dall’inizio: creare un progetto editoriale forte, ricco, bello da vedere e da leggere. Non m’interessava rifarmi alle fanzine italiane, volevo qualcosa di diverso, una pubblicazione capace di attraversare generi e contaminazioni: dal gothic all’electro, dal black metal al dark ambient, passando per l’ethereal, l’EBM. Tutto quel mondo variegato che poi elencammo anche sulla costina di copertina di :RITUAL:. Volevamo che la rivista fosse anche visivamente potente. Una fonte d’ispirazione fu la rivista Orkus, che scoprii grazie a

un mio collaboratore italo-tedesco: graficamente bellissima, sebbene con contenuti deludenti. Volevamo creare qualcosa che fosse bello e ben scritto, così pensammo a un bianco e nero curatissimo, una scelta che entusiasmò Francesco Panatta, il grafico che mi ha seguito in tutti i miei progetti editoriali. Il bianco e nero, diceva, permette variazioni di texture e libertà compositiva che il colore non consente. Poterci permettere quel tipo di cura fu possibile grazie al sostegno totale della casa editrice dell’epoca, Magic Press (poi PMA). Hanno sempre creduto nei miei progetti e mi hanno dato spazio per sperimentare. :RITUAL: era stampata su una carta pesante, densa, con una copertina patinata e lucida: un oggetto editoriale lussuoso.

La spinta definitiva arrivò da un’esperienza personale. Con Fabio Babbini, uno dei miei collaboratori, partimmo per un festival della Cold Meat Industry, etichetta indipendente svedese. Fummo invitati in qualità di stampa e ci trovammo davanti a qualcosa di completamente diverso: dodici band sul palco, nemmeno una chitarra in vista. Una sensazione straniante, ma anche esaltante. L’atmosfera era unica: non il classico festival rock, ma qualcosa che assomigliava davvero a una comunità. So che può sembrare banale, ma quella sensazione di “famiglia” non la trovavo più nella community rock o nei sottogeneri del metal.

Quel viaggio fu decisivo: tornando a Roma avevo la convinzione che una rivista come :RITUAL: dovesse esistere. Con :RITUAL:, io e il team abbiamo deciso di seguire solo ciò che ci appassionava profondamente, rifiutando ogni compromesso. A volte questo approccio non incontrava i gusti del pubblico, perché prendevamo posizioni forti. Non inseguivamo il consenso, e alcune scelte editoriali lo dimostrano: ad esempio, abbiamo rivalutato band come Lacrimosa o London After Midnight, che all’epoca venivano considerate troppo “superficiali” da una parte della scena. Eppure, il fatto che siano ancora attive oggi dimostra che forse, su certe cose, ci avevamo visto lungo.

Cosa invece ritrovi ancora vivo, dal punto di vista dell’editoria musicale indipendente, nel 2025?

Per me, l’editoria è fatta di carta. Di oggetti che si possono toccare, conservare, rileggere anche vent’anni dopo. :RITUAL: rispondeva a quella logica: era un prodotto tangibile in un circuito virtuoso, anche se indipendente. Oggi non so quanta editoria musicale indipendente sia rimasta: forse qualcosa sopravvive nel mondo del fumetto, ma nella musica non vedo quasi nulla. Ci sono portali online come Metal Skunk, dove scrivono contributor competenti, capaci di fare analisi e proporre letture originali. Ma in generale mi sembra manchi creatività, profondità. E comunque, parlare oggi di editoria in campo musicale suona anacronistico. L’unica possibilità che vedo oggi è nella micronicchia, quindi pubblicazioni estremamente specializzate. Ma proporre oggi un progetto come

:RITUAL:, con una distribuzione nazionale, è impensabile. All’epoca stampavamo anche

15.000 copie, avevamo un pubblico fedele, che comprava in edicola ogni due mesi. E nei momenti più intensi gestivamo più testate contemporaneamente, ognuna con il suo CD. Ma quel modello oggi è sparito, i lettori non si fidelizzano più a una rivista: leggono una recensione qui, un’intervista là, seguono i contenuti saltando da un sito all’altro – con una fruizione frammentata, schizofrenica, che rende difficile costruire una voce riconoscibile. Un tempo bastava sfogliare un numero per capire l’identità di una rivista, oggi è molto difficile che sia ancora così.

A distanza di anni, ti capita ancora di incontrare o ricevere messaggi da persone che hanno letto RITUAL: e si sono sentite parte di qualcosa? Hai mai pensato di rilanciare la rivista, magari in una forma diversa?

Se ricevessi un euro ogni volta che qualcuno mi ha detto: “Ma uscirà mai una nuova edizione di :RITUAL:?”, forse oggi avrei potuto comprarmi una casa. La verità è che

:RITUAL: è sempre stata una di quelle creature che nascono da un innamoramento e finiscono per un disinnamoramento. È stata una rivista curata con estrema serietà, in cui niente era lasciato al caso; dal punto di vista grafico, era un impegno mostruoso. Il bianco e nero, che per molti può sembrare un limite, per noi era uno strumento di identità e di credibilità. Poi, però, è arrivato il momento in cui la rivista ha cominciato a perdere lettori. Non perché fosse peggiorata: era la scena a perdere colpi. Le etichette vendevano meno, serate e locali chiudevano, i tour in Italia si riducevano solo ai nomi più grossi. Era un sintomo chiaro: tutto stava cambiando. Per questo ci siamo fermati: non volevo vedere RITUAL diventare qualcosa di trascurabile, era un prodotto troppo bello, curato e costoso da produrre per lasciarlo morire lentamente. Doveva andarsene con dignità.

In realtà, avevamo pensato a una nuova vita online per :RITUAL:, dove non ci sarebbero stati limiti di impaginazione e si poteva conservare la qualità grafica con il nostro lo stile. Avevamo creato delle sezioni per il sito, che però non sono mai state pubblicate per problemi tecnici. Col tempo, la scena si è impoverita fino a collassare. Intorno al 2012, quando :RITUAL: ha chiuso, abbiamo visto tutto svanire: le etichette si sono fermate, i club hanno chiuso, le band non pubblicavano più nulla. :RITUAL: potrebbe ripartire oggi, con lo spirito di allora? Forse. Ma la verità è che non sono più in contatto con quella scena, non voglio trovarmi davanti a un déjà-vu dei primi anni 2000, dove sembrava che tutto girasse ancora intorno a Joy Division, The Cure, The Sisters of Mercy. Oggi guardo le copertine delle riviste sopravvissute – soprattutto in Germania – e ho la sensazione di non essermi perso molto. Le vedo e penso: questa poteva uscire vent’anni fa.

Lascia un commento

Torna in alto