N-Ego

A cura di

Bianca Pestelli

Immagine di

Eleonora Danco


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Alla fine di N-Ego, ultimo film di Eleonora Danco – regista, drammaturga, attrice – mi restano addosso due domande: che cosa ho visto? E perché si è riso? 

Non è fiction, né un documentario. È un senso-a-metà. Ibrido, instabile, sospeso tra pianto e riso. Forse un crinale, che attraverso ancora adesso. Un equilibrio liquido, che non si lascia trovare.

Presentato al Torino Film Festival nel novembre 2024, N-Ego ha poi viaggiato per l’Italia – Milano, Firenze, Torino, Roma – aprendosi la strada da solo. Prodotto da Nightswim, è distribuito direttamente da Danco, che sta autofinanziando la promozione e curando in prima persona la strategia social. “Con una sola copia – sottolinea – stiamo portando in sala tanti giovani, a cui il film sta piacendo moltissimo”.

Romana d’origine, cresce a Terracina. Da piccola andava molto male a scuola e passava ore a disegnare, facendo mostre e vincendo primi di disegno, con uno stile molto personale e astratto. Dopo la maturità a cui viene bocciata, decide di non ripeterla e si iscrive alla scuola di teatro diretta da Gigi Proietti e lavora con la compagnia di Vittorio Gassman, nella sua unica esperienza teatrale con altri registi. 

Debutta nel 1996 con Ragazze al muro, il suo primo testo e spettacolo, da lei anche interpretato e diretto. Fin da allora costruisce una poetica intensa: slang e ironia urbana, tensione corporea, un linguaggio visivo che oscilla tra la ferocia e la tenerezza. I suoi testi – da Ero Purissima a Sabbia, da Nessuno ci guarda a Intrattenimento violento – hanno scalato i teatri italiani, conquistando pubblico e critica. Quando Minimum Fax pubblica Ero Purissima nel 2009, Danco è già una delle voci più potenti del teatro contemporaneo.

Come N-Capace (2014), pellicola d’esordio di Danco, vincitore di due menzioni speciali al Torino Film Festival e candidato al David di Donatello e ai Nastro d’argento come miglior esordio alla regia, anche N-Ego sta riscuotendo un notevole interesse. Due film che partono da diverse età della vita. N-Capace ne indagava i margini: la vecchiaia e l’adolescenza, stagioni non produttive, in-capaci per difetto o per eccesso. N-Ego invece entra nell’età adulta, quando si è nel pieno del sistema, dentro l’ingranaggio.

Credo che a quelle due domande – confuse, provvisorie, forse sbagliate – le risposte migliori possa darle Danco. Così la chiamo. “L’intelligenza è vicina al riso e il dialetto è vicino alla bellezza. Perché è un linguaggio di immagini ed è diretto”, queste sono già due risposte.

Penso proprio alle immagini: mi chiedo e le chiedo se ce n’è una da cui è partita. Certo, un azzardo pensare che un film con tutte le parti e gli incastri di cui si compone possa partire da una sola immagine. Quello della Danco stessa, che è in scena, in un cappotto rosso: “La prima immagine che ho avuto è il cappotto rosso. In N-Capace c’era un pigiama, un’adulta, Anima in Pena, che voleva vivere a modo suo, dal letto. Qui, c’è un’adulta che si sbatte nella vita in modo più evidente”. Quella donna nel cappotto rosso non si sottrae, come l’Anima in Pena in pigiama. Si espone, inciampa, si ostina. 

“Il titolo – spiega – è arrivato solo alla fine, grazie a Marco Tecce, montatore del film e mio collaboratore da sempre”. È a lui che Danco attribuisce un ruolo centrale, nella scelta delle musiche e nel modo in cui sono state impiegate, e soprattutto nella costruzione del film stesso.“Il montaggio con Marco è stato centrale. Non c’era una sceneggiatura formale da seguire: era tutto da comporre”. 

E, non a caso, anche se l’ego sembra il protagonista, non lo è davvero. Non nei termini classici, almeno. Non c’è una storia che si possa seguire rigidamente, pensando alla Poetica aristotelica e ai suoi tre atti: un inizio, uno svolgimento e una fine. È tutto in fieri, come sospeso. Me lo dice anche lei, nella nostra conversazione – che, a differenza del film, ha chiaramente avuto un inizio, uno svolgimento e una fine. Ovvio: anche il film, in realtà ha una struttura: “È come una canzone: ha un inizio, una fine, un centro. Inizio e fine sono fondamentali per attirare l’attenzione. C’era il mio personaggio, c’erano le immagini di finzione con gli attori. Avevo in mente tante di queste cose che piano piano ho iniziato a costruire scrivendole”.

Danco non vuole dare spiegazioni: “Non è un film con un messaggio da trasmettere. L’ho fatto perché è il mio modo di vedere le cose”. Eppure, come mi racconta, una poetica c’è, non aristotelica. È nello sguardo e nell’immagine: “Quello che si può avere a 16 anni, puro, non ancora addestrato. Con quello sono partita per raccogliere le storie”. Storie di adulti che Danco vede “come farfalle”. Accetto il cortocircuito della metafora, senza chiederle altro. E poi provo a risolverla da sola, la lascio volare. È un’immagine carica. Perché nella farfalla c’è tutto: il bozzolo, la crisalide, il bruco. Dentro ci stanno, in qualche modo, N-Capace e N-Ego, potenza e sistema. Forse è questo: un ciclo continuo, che non si lascia chiudere. 

E poi c’è un’altra cosa, un funambulare incerto quando ragiono sul film. In scena non ci sono attori. O quasi. Elio Germano, Filippo Timi, Antonio Bannò: eccezioni rare. Il resto sono persone. “Scelte per strada”, dice Danco, “apparentemente a caso”. Ma proprio apparentemente. “In quell’apparenza qualcosa mi colpiva. E allora le approcciavo e lasciavo che si raccontassero”.
Non è un film sociale, chiarisce. Semmai politico: “perché fa parlare anche gli ‘ultimi’. E li fa parlare in modo puro, intimo, universale, libero”.

Dopo il prosaico, l’epico: le chiedo delle risate. Ce n’erano, durante la proiezione. Alcune mi hanno spiazzata. Lei risponde con calma, e con fermezza: “Anche N-Capace aveva momenti in cui il pubblico rideva. Non sono risate costruite, non c’è il ritmo della commedia. È umorismo puro, vitale, che sgorga dalla verità. Io non faccio parlare le persone per metterle a disagio. È proprio questo: anche nel dramma, la vita ha delle smagliature, una battuta, una luce. E il popolo sa sintetizzare, sa sorridere, anche nel crudo. Quando non ci si canta addosso la miseria, se ne può ridere”.

A oggi non sappiamo se N-Ego sarà il secondo passo di una trilogia, come qualcuno ha già ipotizzato. “Magari. Lo farei anche domani”, mi dice Danco. “Ma non è detto che debba finire così. Forse prima farò tappa altrove”.
Quel che è certo è che i suoi film partono sempre da sé, ma non restano lì. “Mi metto a nudo, sì, ma lo faccio cercando di arrivare agli altri nel modo più universale possibile. È un cinema poetico, come il mio teatro. Diretto, non celebrativo. Impattante come una canzone o un quadro”.
Due idee in testa ce le ha: una prende una strada tutta diversa, “con solo attori professionisti”, l’altra continua la linea di N-Capace e N-Ego.
Magari ci sarà un seguito, magari no. “Fa tutto parte di un percorso”, dice. E, come in quel cappotto rosso o in una battuta che attraversa il dolore, non è il dopo che conta, ma il modo in cui ci si sta dentro. 
“Lo farei anche domani”, ha detto poco prima. Allora non è un traguardo, ma un’urgenza. Una fame alla James Brown, come direbbe lei. Di dare qualcosa che resista. Che si stacchi dalla superficie e resti comunque ben saldo sul fondo. 

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