Marracash

A cura di

Alessandro Vetrano

Immagine di

Redazione Ratpark


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Ho assistito al concerto di Marracash allo Stadio Olimpico di Torino: 37.000 persone, un colpo d’occhio da brividi. Uno spettacolo, in tutti i sensi.

Per raggiungere lo stadio, ho preso un tram stracolmo. Erano le 18 circa, e forse sarebbe servita un’intensificazione delle corse. Ma già lì, su quel mezzo traboccante di ragazzi e ragazze con addosso il merchandising di Marra, si respirava l’aria dell’evento. Quell’attesa collettiva che ha il sapore dell’estate e dei sogni che stanno per prendere forma.

Scendo dal tram e mi immergo in una folla fiume. Il semaforo all’incrocio non conta più nulla: la massa passa compatta. La presenza delle forze dell’ordine è imponente, forse fin troppo. Compro una bottiglietta d’acqua — fa un caldo torrido — e aspetto un’amica. Mi dice di essere proprio davanti al plotone dei carabinieri: non il posto ideale per un appuntamento, ci ridiamo su.

Passeggiamo tra i food truck, inebriati dall’odore della carne alla brace. Alla fine cediamo alla fame e scegliamo un chiosco: 10 euro per un panino mediocre con porchetta (anzi, un salume qualunque spacciato per tale) e una bottiglietta d’acqua. Siamo del Sud, e mugugnare è quasi un dovere. Ci rifugiamo su una panchina all’ombra, cercando refrigerio sotto gli alberi, e ci prepariamo ad entrare allo stadio.

Controlli di sicurezza, metal detector, perquisizione delle borse. Passo il tornello col codice a barre. Siamo dentro.

Curva Maratona, ultimo anello. Scala dopo scala, saliamo fin su in cima. Ad accoglierci, un leggero vento quasi fresco. Ci guardiamo intorno: c’è gente di ogni tipo. Ragazzini con i genitori, trentenni alla ricerca di una direzione. Una generazione in sospeso. Il concerto sta per iniziare. Io fremo. Ma questo è un altro capitolo.

Oltre la musica: me stesso nello specchio di Marracash

Il live parte con un video, poi compare lui: Marracash. Non racconterò la scaletta — chi c’era la conosce, chi non c’era l’ha letta ovunque. Quello che voglio raccontare è la connessione profonda che sento con l’artista.

Entrambi conviviamo con la bipolarità. Entrambi lottiamo con quella linea sottile (anzi, scivolosa) tra persona e personaggio. Una doppia identità che si rincorre e si combatte, in un continuo saliscendi. Una parte vuole brillare, l’altra vuole sprofondare.

È una guerra costante. Dall’euforia più elettrica alla depressione più buia, la mente si trasforma in campo di battaglia. Eppure qualcosa è cambiato. Come dice Marracash: “È finita la pace.” È finita l’accondiscendenza, è finito il compromesso. È arrivato il tempo della consapevolezza.

La consapevolezza di accettarsi, di smettere di subire, di agire. Di vivere nel “qui e ora”. Perché siamo troppo disconnessi da noi stessi. Ci lasciamo travolgere dalle notizie, dai ritmi assurdi, dalle paure. Ma quando ci fermiamo davvero a guardarci dentro? Quando ci prendiamo cura di chi siamo?

È finita la pace, ma non l’amore

Il concept dell’ultimo album di Marracash ha risuonato profondamente in me. Dopo tante crisi personali, sento anche io che è finita la pace. È tempo di affrontare ciò che sono, con lucidità e senza paura.

Non ho la notorietà di Marracash, ma ho la mia voce. Sono Alessandro, e sono anche VTRN. Faccio quadri, creo arte, progetto, sogno. Non sono arrogante, ma determinato. Sto cercando — e trovando — la mia strada, con amore e positività.

“Per vincere la guerra, devi perdere la pace.” E io, oggi, sono pronto a combattere la mia.

Fiero, fragile, vero.

Il linguaggio della frattura, la rinascita nell’imperfezione

Crescendo, ho capito che certi artisti non parlano di te, ma per te.

Marracash è uno di quelli. Non c’è maschera: solo ferite, traumi, e una lucidità chirurgica nel raccontarli. Ascoltarlo è come guardarsi allo specchio, ma senza potersi voltare. Per me, che ho sempre vissuto fuori dal binario, fuori dalle rotte sicure, è stato uno dei pochi a legittimare il caos.

Quando Marracash racconta «Dopo Marrageddon ho avuto quello che una volta si chiamava esaurimento nervoso, meglio noto oggi come burn out», sento che parla anche per chi, come me, ha attraversato il tunnel delle sostanze e della diagnosi.

Non era una declinazione romantica della follia: era un collasso reale, un grido dall’abisso. Ed è proprio da quel punto, fragile ma vero, che ho cominciato a dipingere le voci, a scrivere in versi e trasformare la rottura in spinta collettiva.

Essere artista oggi non è più interpretare la realtà, ma disobbedirle. Io lo faccio così: costruendo spazi dove le emozioni vengono scritte su tele pubbliche, dove anche il disagio ha un posto in prima fila. La pace è finita, sì. Ma non è un lamento: è un’affermazione di presenza. Di verità.

E Marracash, con la sua fragilità resa scultura sonora, è diventato per tanti — anche per me — un ponte. Tra ciò che non si poteva dire e ciò che oggi è necessario gridare.

Marracash non si nasconde dietro parole vuote. Racconta con schiettezza il peso delle sue battaglie interiori, senza mai cercare una via di fuga. La sua musica è uno specchio crudele, che riflette la realtà senza filtri: tra successi e cadute, fragilità e forza.

Anch’io ho vissuto quel percorso, fatto di ostacoli, cadute e risalite. La trasformazione personale non è una linea dritta, ma un sentiero tortuoso, fatto di lotte quotidiane con se stessi. Ho imparato a non cercare la perfezione, ma a riconoscere la bellezza nascosta nelle imperfezioni, a usare il disagio come carburante per creare.

Non serve essere eroi per trasformarsi. Serve solo la volontà di guardarsi dentro con coraggio e scegliere di andare avanti, un passo alla volta.

Non cerca redenzione, ma sincerità, come emerge nelle parole di Noi, loro, gli altri: “Non cerco redenzione, cerco solo di essere vero.”

Questa è la strada che anch’io percorro: non inseguire la perfezione, ma abbracciare la mia verità, fatta di cadute e rinascite, e usarla come linguaggio per chi, come me, non si sente mai solo nel suo percorso.

L’arte come cura collettiva: quando la fragilità diventa forza condivisa

Per anni ho creduto che l’arte servisse a salvarmi. Poi ho capito che non bastava.

Non mi interessava più espormi in quanto individuo rotto e geniale: volevo costruire

dispositivi di guarigione. Volevo che la mia frattura servisse anche agli altri. Che il dolore diventasse materia prima.

Nascono così i miei progetti partecipativi. Le tele condivise, dove chiunque può scrivere un’emozione, una parola, una ferita. E io la raccolgo, la inglobo, la disegno. Non c’è più l’artista da una parte e il pubblico dall’altra.

Siamo una sola ferita che si osserva mentre cicatrizza.

L’arte non è più il mio rifugio individuale, ma uno spazio sociale, aperto, quasi terapeutico. Come nei laboratori nei quartieri dimenticati, nei podcast dove si parla di salute mentale senza vergogna, nei palchi dove il rap incontra il silenzio e lo trasforma in ritmo.

Non so se guariremo davvero.

Ma so che stare insieme nel dolore è già un antidoto alla solitudine.

E questa è la nuova rivoluzione: portare l’arte fuori dalle gallerie e dentro le relazioni. Dove niente è perfetto. Ma tutto è vivo.

Non c’è più pace, ma c’è consapevolezza. E forse è ancora più urgente.

Oggi l’arte non è solo espressione: è cura collettiva, è un modo per dire “ci sono”, anche quando le parole mancano. È uno spazio dove le fragilità non vanno nascoste, ma messe in circolo.

Perché è lì che succede la magia: quando il dolore di uno diventa risonanza per molti.

Non siamo qui per essere perfetti.

Siamo qui per testimoniare la vita, anche quando brucia.

E se è finita la pace, allora inizia qualcosa di più vero:

una comunità che si ricostruisce a partire dalle crepe.

In un mondo che spesso ci vuole perfetti e silenziosi, scegliere la vulnerabilità è un atto di coraggio rivoluzionario. La trasformazione personale non è una linea retta, ma un viaggio irregolare fatto di cadute, lotte e rinascite. Come Marracash ci ricorda con la sua musica e le sue parole, la vera forza nasce dall’essere sinceri con se stessi, dal portare alla luce ciò che dentro fa rumore.

L’arte, in tutte le sue forme, diventa così un linguaggio condiviso di cura e resistenza: uno spazio dove il dolore non si nasconde, ma si trasforma in energia collettiva. In questo abbraccio di fragilità e autenticità si costruisce una comunità capace di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo, dalle proprie crepe.

Perché se la pace è finita, allora è il momento di iniziare a essere veri, insieme.

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