
Politica e società
Cultura di lusso, lavoro di vergogna
Hostess agli Internazionali di Roma: rimbalzi a nove cifre
A cura di
Bianca Pestelli
Immagini di
Redazione RatPark
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Mentre l’Italia sportiva si esalta – giustamente – per prestazioni tennistiche da urlo targate Errani, Musetti, Paolini e Sinner, l’Italia dei lavoratori si domanda come esaltarsi. Dal divano di casa qualcuno, qualcun altro magari – se si è messo da parte un cospicuo gruzzoletto – in diretta dal Foro Italico.
I prezzi esorbitanti – e in crescita – della partecipazione culturale e sportiva parlano chiaro: un biglietto per gli Internazionali può costare tra i 25 e gli oltre 300 euro a seconda delle sessioni e delle fasi del torneo, con un aumento medio del 15% rispetto al 2023. Non è un caso se, come riportato dal Sole 24 Ore, l’impatto economico dell’evento è stato stimato in oltre 400 milioni di euro, in crescita costante rispetto agli anni precedenti. E, secondo un’altra stima, pubblicata da Milano Finanza, l’indotto complessivo degli Internazionali BNL 2025 ha superato la cifra monstre di 600 milioni di euro, tra biglietteria, hospitality, turismo, sponsorizzazioni e diritti TV.
Come molti miei coetanei, sono in cerca di un’occupazione. Più o meno fissa, più o meno retribuita, più o meno appagante. Nel farlo, mi armo stoicamente di pazienza (“ci vorranno mesi”, “non ti abbattere”, “vedrai che troverai la tua strada”) e seguo tutti i canonici step: curriculum bilingue (inglese e italiano), ridda infernale nelle piattaforme di offerta-ricerca lavoro (LinkedIn, Indeed ecc.), appelli a conoscenti, amici, parenti (“se senti qualcosa, batti un colpo”). Insomma, tiro fuori tutto il vario arsenale suggeritomi da chi, prima di me, si è trovato nell’arena agonistica e – anche per questo – svilente della ricerca-di-lavoro.
Tra una candidatura e l’altra, continuo a cercare segnali, conferme, appigli.
Qualche mese fa, a marzo, è uscito l’ultimo report ISTAT sul lavoro, che ha fatto registrare un lieve miglioramento: +70mila occupati rispetto al mese precedente, tasso di occupazione al 62,1%, disoccupazione al 6,9%.
Anzitutto, una precisazione per dissipare gli autoincensamenti provenienti da Fratelli d’Italia e dalla Premier e capogruppo Meloni a seguito del rilevamento ISTAT: il trend positivo è cominciato ben prima del suo insediamento al Governo, in una finestra temporale immediatamente successiva alla pandemia. Dunque, battere sul petto e sui tavoli pugni inorgogliti è un’operazione fallace e poco conscia. Quei dati, inoltre, riflettono un aumento del tasso di occupazione che non comporta un reale miglioramento strutturale – l’Italia resta cronicamente abituata a stipendi da fame – né un coinvolgimento strutturale di giovani e donne nel mondo del lavoro.
Infatti, si sa, i numeri vanno letti in controluce e messi in relazione ad altri. Come sottolinea anche Pagella Politica, la crescita occupazionale è trainata in larga parte da contratti a termine e occupazioni a bassa qualifica, mentre restano forti le disuguaglianze generazionali e di genere. I giovani tra i 25 e i 34 anni sono tra i più penalizzati.
Il confronto con il resto dei Paesi europei, rispetto al coinvolgimento femminile nel mondo del lavoro, vede l’Italia tagliare il nastro all’ultimo posto; per quanto riguarda i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni, poi, il quarto trimestre del 2024 parla di un desolante tasso di occupazione italiano (19,2%), se confrontato alla media EU (34,8%). Un pessimo piazzamento, tutto italiano, lo si registra anche quando si sposta il focus sul tasso di occupazione sul totale della popolazione tra i 15 e i 64 anni: ultimo posto.
E poi, con quali stipendi si lavora?
Secondo una recente analisi di Forbes Italia, lo stipendio medio lordo nel nostro Paese è di circa 30.000 euro annui, pari a 1.700 euro netti mensili. Ma il dato medio inganna: la metà dei lavoratori guadagna meno di 1.500 euro, uno su quattro meno di 1.000. Il divario retributivo di genere resta, tristemente, stabile: nel 2023, le donne hanno guadagnato in media 2.900 euro lordi annui in meno rispettoagli uomini.
Dunque, dicevamo, se qualcosa da registrare c’è, da celebrare rimane ben poco. Ancor meno di cui vantarsi.
Dagli Internazionali di Roma ai dati occupazionali, il passo potrebbe apparire lungo e del tutto ingiustificato. Ma proviamo a guardare dentro a questa distanza. Perché questi mondi, apparentemente distanti – sport e lavoro – si intrecciano con sorprendente coerenza, se solo si osserva chi rende possibile entrambi: lavoratori invisibili, sottopagati, dimenticati.
È su questo contesto – dorato e blindato – che si innesta l’offerta che mi è arrivata via Indeed: Hostess e Steward per l’evento. Mettiamo da parte i prezzi che caratterizzano quella che ormai è diventata una pretesa di partecipazione culturale o sportiva – “La cultura è sempre più un bene di lusso”, titolava qualche mese fa Il Sole 24 Ore, analizzando i dati dell’Osservatorio dei consumi culturali. Sorvoliamo, per un attimo, anche sull’ironia – o la tristezza – per cui a una laureata in Lettere moderne all’Alma Mater e in Editoria e scrittura alla Sapienza vengano proposte certe mansioni come naturali sbocchi professionali (“Ciao BIANCA, il tuo background potrebbe essere adatto a questo annuncio per il ruolo di …”).
Guardiamo, invece, all’offerta concreta: contratto a tempo determinato di tre settimane. Orari compresi tra le 9 del mattino e la mezzanotte. Turni anche di 9-11 ore consecutive. Nessuna flessibilità. Compenso: sei euro l’ora. Vale a dire, meno del prezzo di un biglietto giornaliero della metro a Roma (sette euro) e poco più di quattro caffè, considerando che – secondo Confesercenti – l’effetto Giubileo ha portato il prezzo medio dell’espresso a 1,40 euro, con picchi oltre i 2 euro nei bar del centro. È questo il tipo di lavoro, il tasso di occupazione aumentato, che possiamo celebrare? Sfruttato, degradante, inumano, bieco? Forse sì.
Senza voler paragonare situazioni imparagonabili, è inevitabile pensare a come, in ogni angolo del mondo, grandi eventi sportivi si appoggino su strutture fragili fatte di lavoro precario, invisibile, a volte disumano. Il Qatar, con i suoi Mondiali, ne è stato un esempio estremo. Ma anche in Italia, a sei euro l’ora, si perde qualcosa di profondo: la dignità del proprio tempo e, sempre più spesso, anche la vita stessa.
Nel trittico che meglio racconta il presente – lavoro precario, ricchezza concentrata, cultura esclusiva – di questo Paese, non ci sono spiragli. Nel già citato report del Sole 24 Ore è mostrato come, nonostante una crescita della spesa media per cultura (cfr biglietti Internazionali: sì, anche lo sport è cultura), il numero complessivo di fruitori si stia riducendo. In parole povere, chi può permettersi la cultura spende di più. Chi non può, semplicemente rinuncia. Il problema, però, non è la rinuncia in sé: è l’impossibilità di accesso.
In un Paese che investe poco nei giovani e ancora meno nella loro formazione, parlare di crescita è un esercizio retorico. Oltre questo vuoto esercizio, c’è spazio per la concretezza delle azioni? A sei euro l’ora, dentro un evento da seicento milioni – sono otto gli zero di differenza –, non perdi solo soldi. Perdi anche l’illusione che un lavoro, oggi, possa ancora valere il tuo tempo e la tua fatica.