A cura di

Alessandro Vetrano

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Alessandro Vetrano


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Agosto 2021.
È la fine o forse l’inizio.
La fine di una vecchia e tossica vita, l’inizio di una nuova e fiorente rinascita.

Mi chiamo Alessandro. Sono nato nel 1993 e cresciuto a Palermo, in Sicilia.
Ho commesso reati contro le forze dell’ordine, sono passato dagli arresti domiciliari al carcere anche se per poco, fino ad approdare in una comunità terapeutica a doppia diagnosi.
Ho un passato di abuso pesante di sostanze.

Faccio il deejay, vivevo tra club, discoteche e rave.
Una vita sregolata, sempre oltre il limite.

Nelle sostanze cercavo quello che nella vita reale non trovavo.

Per ventinove anni ho vissuto così.
Poi, una svolta, involontaria o forse voluta, dal mio inconscio.

Al limite: ci sono stato mille volte.
Al limite mi sentivo in pace.
Ma la vera pace è arrivata dopo.

La pace è arrivata quando sono approdato in comunità, a 1.565 chilometri da casa.
Mi sono ambientato facilmente.
E lì ho conosciuto uno strumento nuovo: la terapia.
Arte-terapia. Musicoterapia. Farmaci, prima sedanti, poi stabilizzanti.
Psicoterapia: scavare e portare alla luce parti nascoste di me.

Tutto questo mi ha cambiato.
Forse, qualcuno lassù ha deciso che questa volta dovevo salvarmi.

Facevo uso di crack.
Una sostanza che crea una dipendenza devastante.
L’ho usata per due o tre anni: sono bastati a sfasciare il mio equilibrio mentale.

Al consumo quotidiano di THC, aggiungevo MDMA, acidi, ketamina, speed, popper.
Non mi facevo mancare niente.
Quella era la mia vita da sballo.

Anche in famiglia non andava meglio: i miei genitori e mio fratello erano distrutti, e la mia sorellina  troppo piccola per sopportare tutto  stava iniziando a capire.

Oggi, nel 2025.
Posso dire: ce l’ho fatta.

Non faccio più uso di sostanze.
Vivo con comportamenti sani, affronto ogni giorno con lucidità.
Certo, ogni tanto una birretta me la concedo, ma con la testa sulle spalle.

So gestirla.

A Palermo andavo spesso allo stadio: amo e amerò sempre cantare a squarciagola per la mia città.
Oltre il 90°, urlavo l’amore per la mia squadra.
Oggi seguo il Palermo a distanza.

In tre anni sono tornato in Sicilia tre volte, ma solo una volta sono riuscito a mettere piede di nuovo al “Renzo Barbera”.

Sono in stato di libertà vigilata, per una dichiarata pericolosità sociale.
Ho ancora alcune limitazioni.

Torino, però, mi ha dato tanto.
Se la sai vivere, ti restituisce energia e creatività.

Faccio parte di un collettivo artistico: dipingo, creo quadri outsider, li espongo e li vendo.
Ultimamente abbiamo iniziato anche un progetto di podcast.

In questo cammino ho incontrato tante persone.
Non tutte buone, certo.
Ma molte di loro mi hanno arricchito.
Mi hanno regalato momenti di gioia che non dimenticherò.

Il sistema da cui mi sono staccato

C’è un sistema che ti insegna come devi essere.
Se vuoi suonare nei club, devi piacere. Se vuoi vendere quadri, devi seguire la moda. Se vuoi emergere, devi omologarti.

Per anni ho vissuto a contatto con quel mondo.
Club, discoteche, festival: ambienti dove l’immagine conta più di quello che sei.
Dove devi raccontare storie patinate, fingere di stare bene anche se ti stai spegnendo dentro.
Dove l’apparenza viene premiata, e la sofferenza viene nascosta sotto tappeti di sorrisi falsi e droghe sintetiche.

Io, in quel sistema, non mi ci sono mai voluto infilare davvero.

Anche quando ero perso, anche quando ero distrutto, sapevo che non era quella la mia strada.

Non volevo fingere. Non volevo adattarmi.
Non volevo vendere l’anima per qualche like in più.

Preferisco dipingere in una cantina, suonare in uno scantinato, piuttosto che diventare l’ennesima copia ben confezionata di qualcosa che non mi somiglia.

Il mio percorso è stato ed è ancora fuori dal mercato.
E se questo vuol dire vivere con meno soldi, con meno “visibilità”, va bene.
Preferisco vivere libero che essere un prodotto.

La mia arte oggi: non addomesticata

La mia arte non chiede il permesso.
Non si piega. Non si spiega.

Dipingo come respiro: senza filtro, senza costruzioni.
Uso colori violenti, forme istintive, immagini che a volte fanno paura anche a me.
Ogni quadro è una ferita aperta, ma è anche una cicatrice che racconta che sono ancora qui.

Non cerco la bellezza “perfetta”.
Cerco la verità.
Quella che sporca le mani, quella che non puoi vendere sugli scaffali delle gallerie patinate.

Le mie opere sono outsider, come me.
Nate fuori dai circuiti ufficiali, cresciute tra le crepe delle città, tra chi sa ancora ascoltare il battito reale delle cose.

E poi c’è la musica.
Non più quella dei club dove tutti ballano senza guardarsi negli occhi, ma quella che nasce dal bisogno di dire:
“Sono sopravvissuto. E questo è il mio canto di battaglia.”

Ogni quadro, ogni parola, ogni suono che creo è una dichiarazione di libertà.

Non mi interessa piacere a tutti.
Mi interessa toccare chi sa riconoscere la vita quando la sente vibrare.

Manifesto per chi resiste

Non devi piacere a nessuno.

Non devi adattarti a quello che ti dicono essere il “successo”.
Non devi fingere di stare bene solo per essere accettato.

Se senti che stai andando a pezzi, sappi che si può risorgere.
Si può vivere senza compromessi.
Si può creare senza farsi addomesticare.

Io sono la prova che salvarsi è possibile.
Anche se ti hanno dato per spacciato.
Anche se hai vissuto troppo tempo al limite.

Non devi nascondere le tue cicatrici.
Sono loro che raccontano chi sei davvero.

Non devi cambiare per sopravvivere:
devi resistere per cambiare il mondo che ti vuole addomesticato.

L’arte vera nasce da chi ha avuto il coraggio di guardarsi dentro e non ha abbassato lo sguardo.

Questo pezzo, questa storia, questi quadri:
non sono solo la mia salvezza.
Sono una bandiera per chi si sente fuori posto.

Non vendere l’anima.
Non smettere di credere che un’altra via sia possibile.

Siamo ancora vivi.
E la nostra voce non la spegneranno mai.

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