
Politica e società
Contro questo turismo restano solo gli estremismi
Chi ci guadagna se vendiamo Venezia?
A cura di
Bernardo Maccari
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Dopo la fine della grottesca tre giorni di festeggiamenti nuziali, Jeff Bezos e Lauren Sanchez lasciano il loro parco giochi personale, che poi sarebbe Venezia, in sella ad un jet privato. A rimanere, c’è da dirlo, non sono l’indotto, la fama e la visibilità promesse da alcune tra le più importanti poltrone comunali e regionali, ma la triste consapevolezza che l’Italia è stata definitivamente venduta.
Da anni qualsiasi residente di una qualsiasi “città d’arte”, di qualsiasi borgo il cui centro storico ammicchi ad un passato medievale o rinascimentale o di qualsiasi centro abitato vicino ad un’azienda agricola che produce vino biologico convive con la certezza che tutto ciò che ha intorno esiste allo scopo di essere venduto. Prima i prodotti: formaggi, salumi, vino. Pasta, pane, pizza. Pomodori e pomodorini, mandorle e pistacchi. Poi i luoghi, e ciò che rappresentano: il rinascimento a Firenze, la moda a Milano, la storia di Roma, i canali di Venezia sono diventati slogan pubblicitari. I centri storici parchi divertimento lucidi e innaturali. Giganti immobili, simbolo di una cultura finta il cui solo scopo è quello di essere esposta. Infine, l’Italia tutta, con chiunque ci sia dentro, è stata venduta.
Niente è più italiano se non per aver maggior valore economico, e ogni singolo gesto di ogni singolo abitante del Paese è incasellato all’interno di un set di comportamenti standardizzato, di una forma mentis pubblicizzata allo sfinimento sui social, nelle agenzie di viaggi e su enormi cartelloni pubblicitari. È tutto un’esperienza, un qualcosa di più autentico e soddisfacente di ciò che i turisti potrebbero sperimentare nelle loro hometown. Un qualcosa di maggior pregio, dal maggior prezzo.
Ma la cosa veramente triste è che i cittadini, primi inter pares, scelti per rappresentarci, nella generica piega che ha preso la questione turismo, o più nello specifico nella maniera in cui si sono svolte le fastose celebrazioni dei signori Amazon non vedono niente di sbagliato. Anzi, sia Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, che Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, hanno condannato le proteste dei cittadini in vista dell’evento.
Zaia ha lanciato un accorato appello a difesa del gracile Jeff: “lasciate in pace chi si sposa a Venezia, è il giorno più bello della loro vita”. Brugnaro ha voluto invece far notare che i coniugi e i loro ospiti si sarebbero sicuramente divertiti: “alla faccia di chi protesta”. E queste dichiarazioni di un servilismo delirante, anche se provenienti dalla politica regionale o provinciale, si intonano benissimo con lo spartito che si suona in parlamento, soprattutto da quando Daniela Santanchè dirige l’orchestra del turismo italiano.
L’episodio di Venezia è in realtà solo un espediente catartico da me scelto per dare voce a un sentimento che credo dovrebbe albergare in tutti gli abitanti d’Italia meno i proprietari di ristoranti, alberghi e stabilimenti balneari. Non lo è per caso: novanta jet privati, voci secondo cui erano stati prenotati tutti i taxi della città, alberghi a cinque stelle interamente occupati dal non plus ultra del jet set mondiale, e la netta sensazione che di tutto questo veramente non ci fosse alcun bisogno.
Lauren Sanchez, finalmente in Bezos, ha cambiato 27 abiti in tre giorni, per la gioia delle riviste di settore, e Leonardo Di Caprio, che ricordiamo si definisce un ecologista, è arrivato con il suo jet privato. Intere zone della città sono state sbarrate per permettere a duecento persone di godere della loro ricchezza esagerata e mentre l’Italia va letteralmente a fuoco, a Jeff Bezos doveva essere assolutamente permesso di celebrare il suo amore noleggiando Venezia per tre giorni. Il matrimonio pare gli sia costato almeno 20 milioni di dollari ma lo stupore negli occhi dei suoi ospiti immagino non abbia prezzo.
Cosa ci resta dunque? La risposta è semplice: ci restano gli estremismi. In un articolo pubblicato su Rivista Studio lo scorso anno si sostiene che il problema del turismo non siano i singoli turisti, o comunque che al singolo turista non possa essere assegnata la responsabilità per i danni che l’industria-turismo sta arrecando ai posti più in alto nelle wishlist dei viaggiatori. Questo perché il turismo nasce da un’esigenza positiva, quella di confrontarsi con altre culture, e perché la classica distinzione tra “viaggiatore” e “turista” è fondamentalmente classista. Pur condividendo a pieno in particolare la seconda delle due tesi dell’autore, credo che si possa affrontare la questione da un punto di vista diverso: anche se non esiste un modo di viaggiare sicuramente giusto ne esistono, e molti, sicuramente sbagliati.
Prendere coscienza del numero di fattori che influenzano il modo in cui il singolo turista o il singolo viaggiatore affrontano la loro vacanza non significa che da ciascuno di essi non si possa pretendere un minimo di consapevolezza, e che in assenza di tale consapevolezza ci si debba silenziosamente sottomettere alle aspettative di felicità automatica e patinata che di viaggiatori e turisti ne attirano in numero sempre più grande.
Per quale motivo intere zone di un’intera nazione devono diventare palchi di teatro sul quale si consuma un interminabile melodramma? La risposta è semplice, in teoria: per i soldi. Ma anche accettando l’idea per cui i soldi debbano essere sempre e per tutti l’unico obiettivo, e che quindi qualsiasi attività remunerativa debba essere considerata intrinsecamente corretta, questi soldi finiscono nelle mani di pochi, i già citati ristoratori, albergatori, gestori di appartamenti per affitti brevi. E solitamente finiscono anche per restarci. Allora mi chiedo perché io, che questi soldi non li ho mai visti, dovrei preoccuparmi di come stanno i turisti?
Non devo, ed è molto probabile che se stai leggendo questo articolo non debba neanche tu. Quindi, e questo è un invito, sii disturbatore. Consiglia ristoranti cattivi e sovrapprezzati, dai indicazioni stradali sbagliate, raccomanda serate in locali sporchi e affollati. Discuti animatamente con le guide turistiche quando il gregge di robot a cui propinano storia in pillole occupa l’intero marciapiede. Lancia sguardi disgustati a chiunque sieda sui bus scoperti che intasano le strade di lungarno e lungotevere. Assumi insomma, un atteggiamento apertamente ostile. Naturalmente non sto dicendo, come è stato scritto su Il Nemico, di ricorrere alla criminalità, ma credo sia necessario spezzare il filo che lega le aspettative di chi arriva in Italia alla convinzione, proposta o imposta dall’alto, di rispettarle per filo e per segno.
E se quando, inevitabilmente, andando come siamo andati tutti in vacanza incontreremo questo stesso atteggiamento prima chiediamoci dove, come, perché abbiamo sbagliato. E poi siamo felici, perché vuol dire che lì qualcuno ancora ci vive, che al posto in cui vive ci tiene.